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Storie da tram

Francesca Piro

Anatomopatologa e fondatrice del salotto letterario "“La linea d’ombra”

17 Marzo 2020

Perché questa pausa obbligata dal virus può aiutarci a ritrovare noi stessi

Ho aperto tutte le finestre. Tutte. Voglio che ci sia aria in casa. Pulita, come è quella di queste giornate a Roma, ma anche in tutta Italia. Siamo in quarantena, c’è un virus che circola tra le persone, ma l’aria è tersa e pulita. Quando nei giorni normali faccio questa cosa, in genere dopo un quarto d’ora sento l’esigenza di chiudere tutto per il traffico, il rumore, il puzzo che viene da fuori. L’inquinamento, puzza. La sporcizia, puzza. Le polveri sottili, puzzano.

Le domeniche ecologiche non bastano. Servono settimane, come questa appena passata, per pulire l’aria. Lo dicono i satelliti, si vede dalle immagini che arrivano da lassù. L’Italia è pulita. Alzo gli occhi dalla piantina di lavanda che ho comprato qualche giorno fa al vivaio di piazza Fiume – quello dentro la Rinascente, appena in tempo prima della serrata – e vedo una bandiera italiana che sventola sul terrazzo condominiale di un palazzo. La guardo e penso a quanto siamo strani noi italiani. Siamo quelli dell’emergenza.

Nella vita normale ci accodiamo al pensiero comune e ci muoviamo come roditori, tutti insieme nella stessa direzione, anche quella sbagliata. Nell’emergenza, invece, siamo quelli bravi, siamo quelli che sanno trovare risorse nascoste nell’intelligenza, nell’esperienza e nell’anima. La bandiera che ormai sventola soltanto alle partite di calcio è tornata ad essere un simbolo di unità del Paese, perché ora abbiamo bisogno, tanto bisogno, di sentirci uniti.

Dalla strada arrivano le voci dei pochi passanti, la vicina del piano di sotto parla al telefono con qualcuno, ma ovunque è silenzio. Una pausa lunghissima, quella che stiamo vivendo, una pausa che è una fermata. Non è una sosta. Quando studi per prepararti alla patente impari a distinguere tra sosta e fermata. Ecco, siamo qui, pronti con il motore accesso, pronti a ripartire. “Guarda, ecco, non mi allontano neanche, appena mi dici, riparto”. Stiamo tutti così. Abbiamo paura di ammettere anche a noi stessi che questa sarà una lunga fermata, che diventerà una sosta e che via via forse saremo costretti ad allontanarci dalla macchina, spegnendo il motore.

La Linea d’Ombra

La Linea d’Ombra si è trasferita sul web e con i miei amici scrittori e la generosità di Isabella, la sorella con la voce giusta, sto portando avanti un programma di video-letture distribuite nel corso della giornata. Non è molto lo so, La Linea manca a molti, ma è tutto quello che posso fare o, in realtà, è soltanto quello che riesco a fare.

Non ce la faccio a scrivere in questi giorni. È difficile pensare ad altro che a quello che stiamo vivendo. Vorrei leggere, ma apro e chiudo i libri come se cercassi chissà cosa. Musica, neanche a parlarne. Un film, se riesco ad arrivare a metà già è tanto. Quando non sono in ospedale, resto a casa più che posso. All’andata e al ritorno dal lavoro, mi affretto rapida lungo i marciapiedi di via Tagliamento, mentre intorno a me risuonano i canti e gli applausi dei flashmob.

Nella testa tornano i “grazie, siete degli eroi, forza medici e infermieri”, di tutti coloro che in queste settimane hanno compreso finalmente quanto sia dura la vita che facciamo, perché se è vero che ogni guarigione, prevenzione, diagnosi azzeccata è per noi fonte di nuove energie, sono tante, a volte troppe, le scelte difficili che dobbiamo fare e che dobbiamo imporre. Ogni firma su un referto o su un piano di terapia porta con sé la responsabilità enorme di decidere il destino di quel paziente, e a volte, se mi fermo troppo a pensarci, mi trema la mano. Sono un medico, ma a volte non vorrei esserlo, perché non è un mestiere, è proprio una cosa che ti entra dentro, che entra nella tua vita e in tutto quello che fai.

Quando sono fra persone che non mi conoscono evito di dire che lavoro faccio. La mia famiglia, i miei amici lo sanno: se ci sono colleghi in giro, io mi defilo. Ai congressi non vado mai alle cene sociali; in barca o in viaggio se ci sono colleghi non parlo con loro di argomenti medici se non in camera caritatis e per brevissimo tempo; in compagnia tra non medici se esce l’argomento medicina io prima taccio finché posso sperando che si passi subito ad altro, poi cerco di cambiare il tema della conversazione, e infine, ma proprio infine, quando vedo partire i missili, dico la mia. Tutta. Piatta. Senz’appello.

E allora forse è un bene anche questa pausa che ci siamo dovuti prendere tutti, perché ci consente di guardare alle cose importanti, tralasciando d’inseguire quel pulviscolo che affolla le nostre menti e le nostre parole ogni giorno di vita normale. Ci consente di rimettere a posto i pioli di questa scala tutta sbilenca che abbiamo tirato su, puntellata di informazioni fasulle, pregiudizi avvelenati, ipotesi fantasiose. Stiamo tornando a guardare le persone nella loro giusta dimensione.

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