Roma, 26 Aprile 2024 - 2:05

Storie da tram

Francesca Piro

Anatomopatologa e fondatrice del salotto letterario "“La linea d’ombra”

19 Settembre 2019

Il tram 3 e quell’inaspettato compagno di viaggio da piazza Quadrata a Policlinico

Si vede che io c’ho la faccia così. Così, come? – mi chiedi. La faccia che ispira confidenza. Giorni fa ero alla fermata del tram 3, che in questo periodo qualche volta è un autobus, quindi in realtà forse aspettavo l’autobus. Ero lì, sai, sulla piazza che chiamano “Quadrata”, ma che sulla mappa di Roma è “Buenos Aires”.

Dall’altra parte della strada, un uomo leggeva qualcosa sul telefono. Giacca jeans, zainetto sulle spalle. Alza la testa. Mi vede, mi guarda e: “Scusi, è da tanto che aspetta?” – “Sì, ma in realtà ne è già passato uno troppo pieno”. Attraversa la strada e viene da me, dritto, sicuro… “Perché in Italia è così”, dice con accento straniero. Ahi! Eccolo qua, il forestiero che viene ad insegnarmi com’è l’Italia.

Piazza Buenos Aires

Non è Goethe, no, e neanche Stendhal. È un uomo dagli occhi grandi e nerissimi, i capelli sale e pepe portati un po’ lunghi davanti, gli occhiali da vista alla John Lennon, la barba corta e parla un italiano cantilenante tipico dei popoli asiatici. Mentre lui racconta – ha attaccato bottone in un nanosecondo – io mi distraggo a cercare d’indovinare da dove venga. India, forse? Però la carnagione è troppo chiara per essere del Kerala, e neanche bengalese, forse è siriano. No! Ci sono, dai, è iraniano.

Ma lei cosa insegna all’università?” chiedo aggrappandomi all’ultima frase che ho colto. “Io sono un etnomusicologo, insegno all’Orientale di Napoli e anche qui a La Sapienza. Sono persiano”. Uh! c’abbiamo preso, dice il mio io. Parla lui, intanto. Racconta dell’università, dei contratti, dei seminari, degli studenti, di tutti gli stranieri medio-orientali che vivono a Roma. Scopro che a Roma vivono afgani, pakistani, iracheni, siriani, iraniani. Il Tigri e l’Eufrate, gli dico. Sorride.

“C’è molta arte nel mio Paese, lo sai? Non vogliono che se ne parli, qui voi non lo sapete cosa succede lì”. Gli chiedo: “Da quanto vive in Italia?” – “Dal 1998”. -“E da quanto insegna?” – “Da quando sono riuscito a farmi capire dagli studenti”. Parla, parla, parla. Intanto il 3 arriva, è pieno, lui sale, ma resta a cavallo della porta e mi fa spazio per far salire anche me. “Ecco, qui può passare”. E riprende a parlare e racconta del suo Paese, dei suoi morti, della decisione di andare via. Ogni tanto lo interrompo con un domanda, lui risponde e poi riparte.

Devo scendere al Policlinico, il percorso è breve, vorrei restare ad ascoltare, è interessante il suo monologo. Stiamo arrivando, gli dico: “La prossima è la mia… devo scendere”. S’interrompe, sorride ancora, più grande questa volta, mi fa strada di nuovo verso le porte. “Arrivederci, grazie per aver parlato con me!”. Il mio io è rimasto sul 3.

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