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Storie da tram

Francesca Piro

Anatomopatologa e fondatrice del salotto letterario "“La linea d’ombra”

26 Febbraio 2020

Quella solitudine del cuore che colpisce chi ci sta intorno

Nel giro di poche settimane, due donne che conoscevo sono morte in solitudine. Non erano mie amiche, semplici conoscenti, ma facevano parte della mia vita da molti anni. Tanto tempo fa si erano via via allontanate dal mondo, non uscivano più e rifiutavano la compagnia di figli, nipoti o di persone amiche. Una è morta in Abruzzo, una è morta qui a Roma, proprio in questo quartiere, qualche giorno fa.

Ci ragiono mentre mi preparo la cena e con il piatto davanti mi vedo come sono da fuori, seduta al tavolo della mia cucina, il fascio di luce sotto i pensili, la lampada accesa nello studio. Ci ragiono e penso che la solitudine è bruttissima. Ma non quella che potrebbe apparire guardandomi mentre stasera ceno da sola, no. Parlo della solitudine del cuore, come la chiama mia madre. Quella che secca e inaridisce l’anima, perché il dolore o la mancanza di una propria struttura affettiva hanno avuto la meglio sulla vita. Ci ragiono e penso che “sentirsi soli” – ovvero, provare il sentimento della solitudine – è in fin dei conti salvifico, perché se a un certo punto lo si prova, vuol dire che è scattato un campanello d’allarme e forse si ha ancora una riserva per reagire.

Per alcuni invece non è così. Si “diventa soli” senza rendersene conto e a un certo punto è troppo tardi. La solitudine del cuore non si capisce da dove arrivi. A volte ci si sente soli in mezzo alla gente, a volte si prova isolamento sperimentando il silenzio o la lontananza, ma più spesso, sempre più frequentemente, la solitudine rimane un sentimento misconosciuto, del quale pochi hanno coscienza e pochissimi riconoscono. E così si muore, da soli, pur se circondati da tanti, pur se gli amici ti chiamano, ti cercano, si interessano.

Restare da soli, isolarsi dal mondo, allontanare gli altri può diventare una scelta perché non si hanno alternative, perché non si può scegliere altro che questo. E allora penso che non deve essere stato un caso che io sia stato coinvolta in un’attività di volontariato come quella di aiutare a servire i pasti in una mensa per persone bisognose nella periferia romana. Non è stato un caso, perché quando andai a visitarla ciò che mi colpì maggiormente fu proprio quella di trovarmi davanti a persone “sole” più che “povere in denari”. Piuttosto, povere di affetto, di amicizia, di dolcezza. Ho notato il desiderio di stare insieme, anche se alcune di loro, sedute allo stesso tavolo, apparivano impotenti davanti all’opportunità di parlare con il proprio vicino. Persone isolate dal mondo, alcune chiuse nel proprio silenzio, in attesa sì che venisse servito il pasto, ma anche soltanto semplicemente sedute in attesa. Di qualcosa.

Ricordo di essere uscita da lì con un sentimento quasi d’imbarazzo per la mia posizione privilegiata in questo mondo, ma anche con una gran rabbia furente interiore per l’ambiente che mi circondava, alienante nelle costruzioni in cemento armato, spoglio e desolante per l’assenza completa di una qualche forma di miglioria della struttura architettonica dei palazzi. Con Christian Ginepro (attore, è il personaggio D’Intino nella serie televisiva “Rocco Schiavone” tratta dai romanzi di Antonio Manzini), che quel giorno era con me, è stato un attimo. Al volo abbiamo capito che potevamo fare qualcosa anche noi, lui più di me, che da anni con il suo gruppo Facebook Famiglia Ginepro sostiene progetti di adozione a distanza e di volontariato in Italia e all’estero. Ne abbiamo parlato con i responsabili dell’associazione che gestisce la mensa e ci siamo attivati. Nell’arco di poche settimane si è costituito un gruppo di una quarantina di persone che si alternerà in cucina e nel servizio ai tavoli della mensa con un impegno minimo di un giorno al mese per ciascuno di noi.

Ecco io, allora, in quel momento, pensai che mi fosse stata semplicemente offerta un’occasione per compiere una giusta azione, ovvero aiutare delle persone bisognose di mangiare almeno un pasto caldo al giorno. Ma ho capito soltanto poi, dopo l’improvvisa scomparsa delle due donne che conoscevo, che la povertà da combattere è prima di tutto la povertà degli affetti, di vicinanza, di accoglienza. E che i soldi vengono dopo. Trovo che ci sia sempre una ragione significativa per quello che accade nella nostra vita e penso che ogni incontro abbia un senso. L’aver incontrato sulla mia strada una persona che mi ha offerto la possibilità di aiutare in concreto, insieme con altri, mi consente ora di sopportare lo sconcerto di queste morti solitarie.

Ci penso mentre sparecchio la tavola e comprendo meglio l’affetto che mi arriva da La Linea d’Ombra e la dolcezza con cui tante persone mi dicono: venire qui significa regalarmi un paio d’ore di gioia. Alla fine siamo tutti un po’ soli, è vero, ma alcuni di noi hanno perso per sempre la forza di cercare anche soltanto un’emozione.

È questa la solitudine del cuore.

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