Quelle verità nascoste che si possono scovare tra i mercatini del quartiere
Sono in ordine sparso, gettati qua e là su un tavolo, oppure, specie quando lo spazio è poco e la merce tanta, li trovi allineati, disposti in più file, col dorso e il titolo visibili. Qualche volta li trovi dentro valigie di quelle d’una volta resistenti e tali da reggere ancora un peso considerevole. Ce ne sono di piccoli e di grandi ma tutti hanno qualcosa da dirti. Per certi aspetti i libri usati sono più belli di quelli nuovi che vedi in vetrina. Vengono dal passato e, per qualche misteriosa ragione, hanno resistito alle ingiurie del tempo. Non parlo del tempo atmosferico che alle volte ne sciupa le copertine, parlo del tempo che passa, questo mostruoso inghiottitoio dove tutto finisce inesorabilmente.
È un po’ che sulle bancarelle si trovano libri a poco prezzo. Si parte da un minimo di un euro per arrivare a un massimo di cinque – sei euro. Non sono libri particolarmente pregiati, di quelli che i bibliofili custodiscono gelosamente come autentici cimeli. Se non si trovano cinquecentine e seicentine, si trovano certi libri datati che fanno storia. Io ho trovato l’Antica smorfia napoletana, La rivoluzione sessuale di Wilhelm Reich in un’edizione del 1963; Qui comincia la sventura del signor Bonaventura di Sto, stampato a Milano nel 1927 per i tipi della Madella & C. Editori; e all’assai succoso prezzo di un euro un volume di tutte le opere di un certo Dante Alighieri stampato nei primi anni del Novecento. Né deve stupire perché Dante è, come tanti classici più volte dati alle stampe, dozzinale (dal punto di visto del mercato), per cui lo si trova a prezzi stracciati.
I miei ritrovamenti si sono per la più parte compiuti al mercato di via Metauro e al mercatino dell’antiquariato del cortile Coppedè. l’area che nel corso della settimana lavorativa è destinata al parcheggio delle auto e il sabato e la domenica, specie quando è bel tempo, ospita bancarelle di abiti, di piccolo antiquariato e naturalmente di libri. La “caccia” non è così appassionante come ai tempi in cui c’era il mercato dell’usato di piazza Verdi, ma va detto che in tutto il quartiere ci sono mercatini e punti di vendita di libri usati dove è possibile trovare qualche “chicca”. Si capisce che dove ci sia un negozio i prezzi sono più alti e si va normalmente oltre i dieci euro, che può comunque considerarsi un prezzo conveniente. Oltre al mercato di piazza Sempione, a quello di via Conca d’oro, ci sono nei pressi di piazza Santa Emerenziana due punti di vendita uno in via Lucrino, l’altro in via Massaciuccoli.
Il fenomeno si spiega. Si vanno vuotando le case ricche di oggetti un tempo ritenuti di un certo valore per cui nei mercatini di piccolo antiquariato si trovano graziosi servizi di piatti, di posate, di bicchieri, magari incompleti, ma se ti manca una zuccheriera, o una tazzina da caffè, visti i prezzi decisamente al ribasso, paghi quel che ti viene chiesto e ti porti via un oggetto che sai di poter utilizzare. C’è chi queste cose le regala a persone che sanno apprezzarle. Il libro però merita un discorso a parte.
Il libro è stato per lungo tempo uno status symbol e una biblioteca, più o meno ricca, più o meno ordinata c’era nella casa di un qualsiasi professionista, medico, avvocato, ingegnere che fosse. Questa vanità, soffertamente denunciata per tale già da San Girolamo, autore della famosa Vulgata, ha resistito e io credo che resisterà nel tempo.
Qualche volta capita che dentro il libro si trovino appunti, lettere, biglietti d’autobus, articoli di giornale ritagliati. Una leggenda vuole che un signore vi trovasse un intero foglio di “Gronchi rosa” il mitico francobollo di valore, allora assai più quotato che non adesso e che il fortuito ritrovamento abbia cambiato la sua vita da così a così.
Ultimamente ho acquistato a un prezzo conveniente l’intera annata di una storica rivista di studi su Roma. Si tratta di “Capitolium” e l’anno è il 1935. All’interno, ripiegati dentro una cartellina, vi sono alcuni articoli su Roma sparita, tolti da vari giornali. Tra questi delle pagine di un bollettino parrocchiale che non disdegnava di scender in particolari riguardanti la storia del quartiere Trieste-Salario. Infatti il bollettino, che nell’intestazione (Ventuno / undici) ricordava la data del martirio di san Saturnino, era diretto da monsignor Ottavio Petroni parroco della chiesa di via Topino, che non si limitava a informare i parrocchiani delle attività e delle iniziative promosse dalla chiesa, ma informava anche circa la storia dei luoghi da loro abitati. E insomma, ripiegati nel volume, ho trovato due articoli a firma Federico Mandillo (30.11, 1932 – 9.3. 2003). Mandillo fu vaticanista all’ANSA, il che significa un giornalista assai qualificato e dirò che quello che scrive si apprezza anche a distanza di tempo. Dei due articoli può vedersi la copia qui riprodotta: il primo del novembre 1988, il secondo del febbraio 1995. Entrambi raccontano con garbo e vivacità cose che di quest’angolo del Trieste-Salario ignoravo completamente. Se è praticamente impossibile per i nostri lettori, riuscire a leggere quanto vi è scritto nella foto-riproduzione, è facile decifrare il titolo dei due articoli: C’era una volta una chiesa tra vigne e ville antiche e Per leggere e capire il quartiere Salario.
Sapevo già che la Villa Lancellotti, di cui può ammirarsi il portale che si trova su via Salaria quasi di fronte a Villa Ada, era un tempo una villa del conte Gangalandi, ma non sapevo che la villa confinasse “con la vecchia villa di Filomarino, principi napoletani, poi passata a locandieri” e divenuta oltre un secolo fa ‘osteria di Filomarino”. Né tantomeno sapevo che i confini di questa villa arrivassero fino all’area dell’attuale piazza Crati.
Sempre per dar ragione della toponomastica del quartiere, trovo nell’articolo di Mandillo, oltre all’origine della denominazione data a via (di) Filomarino, quella della via di Trasone. Pare che san Trasone fosse il cristiano che provvide a dare sepoltura al corpo di san Saturnino, anche se come santo non è “ricordato nei testi storici”.
Come spesso accade ai giornalisti che devono per obbligo d’ufficio dedicarsi alla cronaca, si torna a distanza di tempo su temi che appassionano ed è nel secondo articolo che Mandillo, qualche anno dopo, si diffonde con più particolari sulla collocazione della villa Filomarino, scrivendo: “Non volerebbero via, tra i palazzi del presente, due edifici rossastri, uno dopo l’altro che si incontrano tra via Arbia e via Nera, sul lato destro della via Salaria sempre venendo dal centro-città. Sono i due palazzetti della vigna di Filomarino, un ricco cardinale napoletano che aveva questo cognome…”
Dei due edifici quello che si incontra per primo era la villa del cardinale, “con cancello ed ingresso su via Arbia”. Ma poi tornando indietro, si scopre sulla facciata che dà su via Salaria “incastonato, anche se sbocconcellato su un angolo, lo stemma del cardinale Filomarino, in pietra”. Per quanto riguarda l’altro edificio, (la seconda casa rossa) si tratta, come è noto, della residenza scelta da Luchino Visconti negli ultimi decenni della sua vita.
Resta il fatto che, come lamenta Mandillo, la “via di Filomarino” indicata dalla targa, è “una stradina in discesa che, dalla Salaria, muove vero via Fogliano e piazza Crati”, un bel po’ oltre di quel che rimane degli edifici che la abbellivano e soprattutto da quella che con tutta evidenza era la dimora in cui d’estate si trasferiva il Cardinale.
Sono cose apparentemente insignificanti, ma quante volte ci chiediamo da dove una via tragga il suo nome? Per me Trasone era assai probabilmente, fino a pochi giorni fa, un luogo geografico, non il nome di una persona. Ora i Lancellotti, i Filomarino, san Saturnino appartengono alla storia e anche volendo eccepire che non sempre le catacombe furono sepoltura di cristiani sacrificati o crocefissi chi sulle vie consolari romane, chi al circo per il divertimento del popolo, non c’è dubbio che tanto la certezza quanto il dubbio circa la veridicità di certi fatti appartengono alla nostra storia. Forse la scoperta più divertente è che i Filomarino vendessero a un oste un terreno di cui a Roma non sapessero più che cosa fare.
La conclusione è che non importa che i libri si leggano in formato elettronico o cartaceo. È importante che siano letti. Ed è a questo punto fondamentale che si salvino quei libri (e quegli scritti) che difficilmente potranno trovare una versione “digitalizzata”, per la ragione che sembrano non dover destare l’interesse di un largo pubblico.
Quel che dispiace è che le speranze, le attese, l’umanità di certi autori “minori” che hanno avuto il torto di adeguarsi un po’ troppo a una moda o l’altro d’averla contrastata senza tregua, finiscano in un dimenticatoio, dal quale sarà nel tempo sempre più difficile recuperarli. I romanzi popolari dell’Ottocento con storie a fosche tinte e complessi intrecci di destini amorosi con lui, lei e l’altro e l’altra che si struggono nel tradimento oltre che nell’essere traditi, hanno veramente segnato un’epoca e se in questo senso non vanno ignorati, non va neppure dimenticato quel che avrebbe meritato maggiore attenzione e che fu invece oscurato da una moda.
Senza parlare dell’onesta premura con cui Federico Mandillo informava, ancora pochi decenni fa, i suoi lettori circa piccole ma succose verità sulla storia del quartiere in cui passeggiamo col naso per aria immersi nei nostri pensieri.