Roma, 26 Aprile 2024 - 10:12

Il quartiere segreto

Ludovico Fulci

Ex docente del liceo Giulio Cesare, scrittore e saggista

29 Ottobre 2019

Quando da Cerasari in via Salaria potevamo gustare le pietanze e i vini più pregiati del quartiere

Io ricordo quando Cerasari era un grande locale nel quale si entrava dalla porta che è quella del negozio di primizie, oggi gestito da Carlo Cerasari, e si usciva da quella dell’attuale bar Cerasari dei fratelli Enrico e Lavinia, nipoti di Carlo.

Carlo Cerasari
Carlo Cerasari

Dentro c’erano due banconi con ogni ben di dio. La sola collezione di vini, alcuni dei quali pregiati, faceva invidia alle più rinomate vinerie di Roma. C’erano quelli italiani e quelli francesi, a cominciare dagli champagne, ma anche il tokaji, il pregiato vino ungherese. Per non parlare dei salumi e dei formaggi e dei più prelibati prodotti della cucina italiana. E, a proposito di cucina, c’era uno spiazzo all’interno dell’ampio locale, antistante il secondo bancone – quello più lungo e più fornito – dove si mangiava comodamente seduti. Alla “tavola calda” si arrivava salendo due scalini di legno. Negli anni Ottanta vi andava con una certa frequenza il regista Giuseppe di Martino che, allora, viveva a via Panama e che è stato il mio maestro di sceneggiatura radiofonica, assieme al quale scrissi La vita e l’opera di Vincenzo Bellini, un programma radiofonico in quindici puntate sul musicista siciliano.

È ricordando questo passato che avvio una mia conversazione con Carlo Cerasari, figlio di Pietro Cerasari e di Agnese Marzolini. Siamo su via Salaria al numero 280, appena svoltato l’angolo con via Arno.

Il signor Carlo non è un giovanotto ma, sebbene sia un uomo d’età, è cauto nel parlare, non è per niente ciarliero come pure vorrebbe la tradizione che attribuisce alle persone che abbiano varcato la soglia di più anta, una voglia incredibile di chiacchierare. Padron Carlo è un tipo attento e di poche parole che fa ogni tanto una battuta scherzosa. Sicché bisogna fargli tante domande. Cosa che un po’ lo diverte, un po’ lo insospettisce. E allora si mette un po’ di traverso nel guardarti.

Ma la sua storia è bella perché è vera.

I Cerasari erano una famiglia originaria di Cascia e da lì arrivò dopo la Prima Guerra Mondiale il giovanissimo Pietro (7. 7. 1909 – 15. 11. 1991) che per circa vent’anni lavorò “sotto padrone” come mi racconta il signor Carlo, suo figlio. Poi il primo salto di qualità e Pietro, imparato ormai il mestiere, si fa coraggio e apre una pizzicheria in via Salaria 256 nei pressi di largo Benedetto Marcello. Quindi, dopo il matrimonio con Agnese Marzolini (25. 11. 1911 – 22. 4. 1984), prende i locali della storica gastronomia Cerasari che Carlo e suo fratello Gianfranco (padre di Enrico e di Lavinia) avrebbero dopo portato agli splendori degli anni Ottanta, Novanta e Duemila.

Una parola tira l’altra, apprendo che la fortuna dei Cerasari si costruì anche grazie al matrimonio di Pietro, papà di Carlo, con la signora Agnese. Lui era, come ho già detto, originario di Cascia nella Valnerina. Lei, che era una cuoca, era nata a Rocca di Botte in provincia dell’Aquila. Una cuoca raffinata, se si considera che lavorava per una ricca famiglia che abitava in via Bertoloni. La norcineria umbra e la cucina abbruzzese sono già di per sé due garanzie di qualità e di grande fantasia di sapori. Per poco che vi si aggiunga una tradizione romana fatta di pinzimonio, gnocchi, trippa e cacio e pepe, per tacere della coda alla vaccinara, si comprende che angolo di prelibatezze fosse Cerasari ancora nel passaggio tra i due millenni. A far “genuini” i prodotti non c’era soltanto l’attenzione scrupolosa nel selezionare i fornitori italiani e stranieri, ma anche un’azienda agricola di famiglia che si trovava in Sabina, con piantoni d’olivo e vigneti di vitigni selezionati, oltre a prodotti ortofrutticoli d’ogni genere.

Pietro Cerasari
Pietro Cerasari

Oggi una “filiera” così accuratamente studiata non sarebbe possibile. Basti pensare che, ai nostri giorni, nei bar dove andiamo a consumare la colazione o a fare uno spuntino una cosa tradizionalmente casareccia, come può essere la maionese, dev’essere rigorosamente industriale. A parte questo, e quel che ho sentito dire in giro del latte e dello yogurt, le cui date di scadenza verrebbero (il condizionale è d’obbligo quando si riferisce quanto ha tutta l’aria d’essere un’indiscrezione che potrebbe essere solo una maldicenza) soprascritte dalle stesse ditte fornitrici che ritirerebbero (vedi parentesi precedente) le confezioni per stampigliare sopra una nuova data di scadenza.

A parte questi e altri consimili accidenti, non c’era negli ultimi decenni del secolo passato il traffico di auto che c’è adesso e, a cominciare dalla vicina via di Villa Grazioli, si trovava un angolo tranquillo dove lasciare la macchina e andare a fare uno spuntino o un rifornimento di svogliature da portare a casa. C’era veramente l’imbarazzo della scelta. Qualcuno veniva apposta da tutte le parti di Roma perché – questo lo ricordo io – era risaputo che da Cerasari si trovava anche la frutta esotica e di fuori stagione. E ancora oggi è così, per cui dalla “cipolla al caviale” il negozio offre veramente di tutto. Ma – come spiega padron Carlo – la clientela è cambiata. Tanto per cominciare i buongustai sono diminuiti di numero. La zona un tempo “residenziale” si è trasformata in un’area in cui gli appartamenti sono stati, a cominciare già dagli anni Novanta, adattati a uffici. Non solo il tartufo, il caviale, il vino pregiato, ma tutto quello che crea il clima giusto per una tavola in festa è sempre meno richiesto. Se pochi lo esigono, molti non lo cercano neppure.

Ma altre cose ancora sono cambiate. Oggi è l’era dei supermercati e dei grandi centri commerciali e i prodotti alimentari, a cominciare dalle patatine fritte e dalle merendine per i bimbi, si trovano già “confezionati” per le comprensibili esigenze della donna che lavora.

Sicché in zona vari esercizi hanno chiuso, a cominciare dal bar Peverini, dove andavo a comprare il latte per i miei figli prima di andare al lavoro. E che era a pochi passi da Cerasari. “Peverini? Ma certo che li conosco! – mi fa il signor Carlo – Aldo era mio compare! Mi fece da padrino alla cresima! E parliamo della macelleria Amici che è ancora sulla breccia e di Mario Testa che aveva il forno ad angolo tra viale Regina Margherita e via Cimarosa.

E parlando col signor Carlo delle persone che frequentavano un tempo il locale, apprendo che tanti personaggi si affacciavano alla tavola calda di Cerasari: c’erano politici come Cesare Merzagora e Pietro Nenni. Ad ascoltare la conversazione c’è il signor Marcello che, per vari decenni, ha lavorato per Cerasari e, quando Carlo lo interpella, è un fiume di nomi che esce fuori. Si tratta di personaggi dello spettacolo: Aldo Fabrizi, Paolo Villaggio, Gianni Morandi, perché – mi precisa Marcello  indicando i piani superiori del fabbricato – abitava qui Gino Malerba che dava lavoro agli attori.  Credo si trattasse del marito di Margaret Lee che, dopo aver recitato in alcuni film, preferì dedicarsi all’attività di talent scout.

E a Marcello fa eco Carlo ,che si ricorda di Alberto Giubilo che si faceva vedere regolarmente. Per me che ricordo le impeccabili telecronache che Giubilo faceva da piazza di Siena ai tempi dei fratelli d’Inzeo, è stato un rivedere la piazza di Villa Borghese, il prato rasato e il silenzio, un silenzio tutto particolare che accompagnava il percorso dei cavalieri italiani che in sella a morelli, pezzati, scendevano in campo nella non vana speranza di effettuare il famoso percorso netto. E qui, appena superato l’ultimo ostacolo, la pioggia di applausi che invadeva piazza di Siena.

 

“E poi c’era Fellini che era un signore! – riprende padron Carlo – Per non dire di quelli che, per Natale e Pasqua, spendevano i milioni per mandare a certi personaggi pacchi dono da non dirsi”. E mi precisa: “Abbiamo avuto il boom con le Olimpiadi del 1960, quando l’intero staff dei campioni svedesi frequentava il locale, specialmente la sera.

Tornando a casa penso che, invece di arricchirci, ci siamo nel tempo tutti impoveriti, perché la ricchezza non sono i soldi ma gli averi. Per non pensarci prendo un libro che sta ancora sulla mia scrivania e che ho comprato appena il giorno prima per due miserabili euro su una bancarella, sollecitato all’acquisto dal nome dell’autore, Marshall McLuhan, del quale avevo letto oltre trentacinque anni fa un’opera indimenticabile, La galassia Gutemberg che mi aveva aperto nuovi orizzonti per lo studio della letteratura come fatto sociale complesso. Dando una scorsa all’indice, mi soffermo sul titolo di un capitolo: Denaro. La “credit card” del povero. Stento a crederci e vado a vedere la data della prima edizione dell’opera: 1964.

E poi dicono che le intelligenze profetiche non ci sono!

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