La magia del grande schermo in quei cinema del Trieste-Salario che non esistono più
Fra i più belli c’era il Rex. Si trovava a corso Trieste, all’altezza più o meno del semaforo di via Topino. Senza essere né regale in senso stretto, né Tyrannosaurus, aveva un po’ dell’uno e un po’ dell’altro. Le poltroncine ricordavano quelle dei teatri e ciò gli conferiva l’aspetto di un cinema di lusso.
Come il Tyrannosaurs rex, ti fagocitava non appena, piano piano, accostandosi l’uno all’altro, i pannelli scorrevoli al centro del tetto chiudevano la vista del cielo, invitandoti a immergerti, fino a naufragare nel mare di un leopardiano sognante immaginario. E aveva inizio il rito di un sogno collettivo, che in altre parti della città, anzi d’Italia, era da altri partecipato.
Era questa la magia della sala cinematografica, magistralmente ricordata da Giuseppe Tornatore e, come ho scoperto anche grazie a lui, le emozioni che si provavano a Roma non erano poi tanto diverse da quelle che si provavano in un paesino della vecchia Sicilia.
Io andavo di rado al Rex e, a costo di pagare qualche lira di più, salivo in galleria da dove lo spettacolo del lento accostarsi dei due pannelli, fino all’oscurarsi della sala, si vedeva meglio e ti veniva da allungare la mano quasi a cercare l’azzurro del cielo che si spalancava ai tuoi occhi nell’intervallo tra il primo e il secondo tempo, quando il fumo delle sigarette saliva lentamente tracciando una via che trasformava l’alto finestrone in una specie di camino.
Anche il Mondial di viale Libia aveva un che di magico legato, più che altro alla sua modernità. C’erano poi il Cine Fogliano, oggi King, l’Alcyone, oggi Lux, sale cinematografiche diventate multisale.
Andando più indietro nel tempo, ricordo il cinema Trieste che si trovava di fronte a casa mia, quando bambino abitavo a via Asmara. Ci andavo volentieri, anche perché c’era l’avanspettacolo e mi piacevano le ballerine che mostravano le gambe. Questa innocente curiosità era, come tale, accettata in casa, al punto che i miei genitori dicevano “portiamo Ludovico al Cine Trieste, che ci stanno le ballerine”. Poi, a catechismo, mi fu spiegato che era peccato soddisfare certe morbose tendenze e che facevo “peccato”.
Erano altri tempi rispetto a oggi e il peccato non era solo peccato e basta. Come mi spiegò una suora, ogni peccato che io facevo, era come se dessi un colpo di martello sui chiodi che alla croce legavano quel povero cristo di Gesù di Nazareth. Devo dire che francamente la cosa mi sconvolse. Non ne parlai con mamma e papà, tanto ero vergognoso della cosa. Mi sentivo un verme ripensando al peccato più volte reiterato di posare il mio sguardo sulle cosce tornite delle ballerine del Cine Trieste. E non vi andai più, se non quando si dava solo il film, senza il “Varietà”.
Proprio a piazza Annibaliano, cioè a un passo (due erano troppi) dalla casa della mia infanzia c’erano i cartelloni con l’indicazione dei film che venivano proiettati nella varie sale del quartiere. E più di una volta scendevo di casa, con papà, ma anche da solo per riferire che cosa tra sabato e domenica offrissero le sale cinematografiche del circondario. Compiuta la missione, i miei guardavano sul giornale in che cosa consistesse la trama, e quali fossero gli interpreti, in verità poco curandosi della “valutazione pastorale”, della quale talvolta i miei genitori, soprattutto papà, sorridevano.
Al Cine Trieste andavamo le mie sorelle ed io, accompagnati dalla cameriera, una persona impagabile, che si prodigava per noi bambini. Si chiamava Crocefissa Garganese e, a quanto ricordo, era di Francavilla Fontana, paese della provincia di Brindisi. Lì vidi La Tunica, Quo vadis?, Fabiola, il Prigioniero di Zenda, ma anche, con i miei genitori, Via col vento, e Ulisse. Sono film per me memorabili, dai quali ho imparato a sognare, scivolando in poltrone che mi parevano grandissime.
Poi qualche volta accadeva che, dopo aver scelto un posto che per me andasse bene, arrivasse a sedersi davanti qualche signore un po’ troppo alto e allora dovevo sporgermi e tirare, come tanti altri bambini, il collo in su. E quando mi lamentavo perché non riuscivo a vedere un bel niente, papà mi sollevava dalla poltrona in cui ero seduto e mi faceva accomodare sulle sue ginocchia e da lì finalmente vedevo e il premio era un sogno lungo e bello.