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27 febbraio 1984, il jazz club Alexanderplatz apre i battenti
di Daniele Petroselli27 febbraio 1984. Una data storica per Prati, per Roma. Nasce l’Alexanderplatz, il jazz club più famoso della città ma anche d’Italia, tanto da essere entrato tra i 100 locali del genere più importanti del mondo. Un sogno realizzato da Giampiero Rubei, che ha trasformato un locale “buio ed umido” in un tempio del jazz e che sul palco ha visto passare il meglio degli artisti internazionali, da Chet Baker a Chick Corea, da Wynton Marsalis a Ray Brown, passando per Tony Scott, Benny Golson, Billy Higgins, Michel Petrucciani, Michael Brecker, Joshua Redman, Joe Lovano. Per non parlare dei tanti italiani lanciati, come Marcello Rosa, Riccardo Biseo, Enrico Pieranunzi, Roberto Gatto, Stefano Bollani, Rosario Giuliani e Stefano Di Battista solo per citarne alcuni.
Un’idea brillante, coraggiosa, come ci racconta Eugenio Rubei, figlio di Giampiero e attuale direttore artistico dell’Alexanderplatz, che proprio oggi si appresta a festeggiare i 36 anni di attività: “Roma negli anni Ottanta non era una metropoli internazionale come oggi, viveva sulle attività di quartiere. Mancava un luogo di aggregazione che avesse un respiro internazionale. Mio padre creò questo locale a Prati proprio per colmare questo vuoto. Gli artisti andavano a Londra, Berlino, Milano, nessuno a Roma. La grande forza di papà è stata quella di sdoganare Roma e farla diventare internazionale. Un’operazione riuscita, che ha avuto il suo rilancio con l’Estate Romana, tramite il festival di Villa Celimontana”.
Un successo che dura anche oggi, frutto, come dice Eugenio, “di tanta passione e tanto lavoro. Avere idee e passione, è questa la miscela esplosiva”. L’Alexanderplatz non solo ha portato musica, ma ha formato tante generazioni di ragazzi: “Questo è un altro merito di mio padre. È riuscito a superare le generazioni, ha formato tanti ragazzi. Una volta si diceva che il jazz fosse di nicchia, invece Giampiero è riuscito a sdoganare questo genere, a farlo diventare popolare. Quello che è meno facile oggi è trovare musicisti di qualità”.
Un locale che ha un rapporto profondo con il quartiere: “Siamo radicati a Prati, ci siamo nati e la gente ci vuole bene – confessa Rubei – Siamo amati e benvoluti da tutti. Si sono creati rapporti personali di stima e rispetto reciproco con gli abitanti. Sono lontani i tempi in cui la musica alta creava qualche problema, oggi sono proprio quelli del palazzo che ci ospita a proteggerci”.
Tanti i momenti belli di questi 36 anni, anche delicati: “Sicuramente la morte di mio padre, il creatore dell’Alexanderplatz, il 2 aprile del 2015. In quel momento siamo davvero stati vicini alla parola fine”, ma oggi più che mai il locale può guardare al futuro con grande ottimismo: “Abbiamo passato un momento difficilissimo, la scorsa stagione siamo stati chiusi il 29 novembre del 2017 ma il 18 ottobre scorso abbiamo riaperto come e meglio di prima. Abbiamo comprato le mura, cosa che prima non era stato possibile, lo abbiamo ristrutturato e ogni giorno riceviamo e sentiamo l’affetto di questo mondo del jazz, del quartiere, che ci ha aspettato per tutto questo tempo. Per noi parlano i numeri: 14 mila concerti, qualcosa come oltre 40 mila artisti che sono passati sul nostro palco e più di un milione di persone che hanno assistito ai concerti. Numeri che fanno paura. Sembra qualcosa di semplice, invece dietro c’è un grande lavoro”.
Ma c’è un aneddoto che più di ogni altero riaffiora alla mente proprio oggi: “Mi ricordo nel 1982 quando Chet Baker venne per quello che fu uno dei suoi ultimi concerti in Italia prima di morire. C’era una fila enorme, tanto che dovemmo far entrare la gente a turni per assistere. All’epoca c’era il mercato a via Ostia e i palazzi erano le case di quelli che avevano i banchi al mercato rionale. Noi facevamo tardi e loro però dovevano svegliarsi presto la mattina. Uno di questi scese giù in mutande e canottiera che addirittura fermò il concerto perché voleva dormire. Mio padre però lo calmò e il signore si rivestì e assistette alla serata accanto a lui. Oggi ci sono i suoi figli qui sopra, li abbiamo visti crescere e abbiamo un ottimo rapporto”.
36 anni portati benissimo ed Eugenio Rubei fa (e si fa) un augurio speciale: “Spero che possa vivere oltre la nostra famiglia. Oggi abbiamo la capacità di aver sistemato il locale per sempre, il locale ha un futuro e deve continuare oltre noi. C’è stato mio padre, ci sono io, non ho figli e quindi spero che continui così. Lo doneremo alla città di Roma”.