Prati | Massimo Pucci
“Vi racconto le storie del mitico bar Pucci”
di Daniele Petroselli
Se passate a via Fabio Massimo, all’angolo con via dei Gracchi, dovete pensare che lì una volta c’era un luogo che per molti abitanti di Prati ha significato tanto. Parliamo del Bar Pucci. Per decenni, fino alla chiusura avvenuta nel 1990, è stata una vera e propria istituzione. Ma ancora oggi è nei ricordi di tante persone del quartiere.
Aperto nel 1973, è ben presto diventato il punto di passaggio di tanti vip ma anche un punto di ritrovo storico della gente di Prati. “Avevo 9 anni quando papà Dante e mamma Anna, romani ma con origini abruzzesi, aprirono il locale – racconta Massimo Pucci -. Avevano avuto già un altro bar negli anni Sessanta, poi però presero quel posto che inizialmente era una torrefazione ma che negli anni si era trasformato in un bar. Il quartiere stava crescendo in quegli anni, era piuttosto popolare. Mi ricordo che quando arrivammo il mercato dell’Unità era all’aperto, sembrava di stare in periferia ma l’atmosfera era bellissima. Ma subito dopo che aprimmo il bar, nel giro di pochi anni il quartiere cambiò volto“.
Il Bar Pucci è diventato in poco tempo non solo il posto dove prendere un caffè o un analcolico: “Molti chiesero a mia madre ‘Ma perché non fai anche qualcosa da mangiare?’. Noi abitavamo al portone a fianco, al terzo piano, così cominciò subito a cucinare qualcosa a casa e lo portava giù. Praticamente diventò la prima vera tavola calda della zona. C’era Franchi ma era solo da asporto, noi invece trasformammo il bar per poter accogliere i clienti anche per mangiare e poi trasformammo il piano inferiore, che una volta era della torrefazione, in una cucina. Facevamo 150 coperti, che era un gran numero per l’epoca. All’ora di pranzo tutti quelli che lavoravano negli uffici di zona venivano lì, poi c’era anche Musicarte a due passi. Eravamo aperti dalle 5 del mattino, con papà che faceva la colazione per i netturbini, fino alle 23.30. Tanti nostri clienti sono diventati nostri amici, abbiamo creato una comunità davvero bella. E con tanti ci siamo in contatto anche ora, a 30 anni dalla chiusura“.
Insomma, un punto di ritrovo per tanti di Prati: “Tanto che – racconta Massimo – mio padre negli anni Ottanta organizzava dei pullman per andare a sciare al Terminillo la domenica. Facevamo delle locandine a mano e le distribuivamo nei negozi di sport della zona. Venivano tanti ragazzi ma anche tanti signori e signore. Poi c’era chi sciava, ma anche chi si portava il barbecue o chi faceva solo un pic-nic. Erano giornate indimenticabili”.
Tanti i personaggi che sono diventati “mitici”: da Alfonsino, “il gobbetto che praticamente viveva nella sua Fiat 500 beige e a casa ci dormiva solo”, al ‘Gambero’, “un vecchietto che andava in giro con un paio di bustoni, faceva una risata assordante e un gesto con la mano (pugno chiuso, pollice e mignolo aperti) e che scuoteva la mano e ad un certo punto tirava fuori da una busta un’enorme tiara da Papa e benediva i passanti”. Da Zio Duilio, “un’enorme uomo sui 55 anni, che beveva Campari soda come acqua, sigarette e sotto il braccio teneva ‘Cavallo 2000’, come nelle scene di Febbre da cavallo”.
Fino a Carletto ‘er Romanista’: “Aveva la stessa età di mio padre, ma tutto acciaccato, camminava ma faticosamente, forse perché un gran mangione – ricorda Massimo Pucci -. Viveva con la mamma ed era un super tifoso. Andava allo stadio all’apertura, fornito di una fagottata di fettuccine, spesso preparate da noi, e si apparecchiava sui ‘muretti’ delle gradinate dello stadio. Spesso raccontava che quando andava in trasferta, la mamma gli preparava una scatola di scarpe piena di cotolette panate, andava in treno e se il viaggio era lungo, le cotolette non arrivavano a destinazione. Un romanticone”.
Ma qui negli anni sono passati anche tanti personaggi famosi: da Luca Cordero di Montezemolo a Edwige Fenech, ma anche Sandro Ciotti, Maria Rosaria Omaggio, Patty Pravo, Pippo Franco, Enrico Montesano, Mia Martini, Francesco de Gregori, Pino Daniele, I Cugini di Campagna, Tony Esposito, Claudio Simonetti. E di ognuno Massimo ha un ricordo speciale: “Spesso veniva Walter Martino del gruppo musicale Goblin. Una volta addirittura scese nella cantina del bar dove io avevo la batteria e si mise a suonare. Fu davvero un momento indimenticabile”.
Ma il rapporto, quello vero, da ricordare, è con Renato Zero: “Andavo a scuola a piazzale Flaminio, al ragioneria Pantaleoni. Un anno, quando avevo 14 o 15 anni, mi spostarono a via Valadier perché non c’erano le classi. Lì conobbi un ragazzo che faceva il paparazzo. Una sera ero con lui e con la mia fidanzatina. Eravamo a corso Francia in un ristorante e all’interno c’era anche Renato con altre persone. Ci facemmo una foto con lui ma poi io e la mia fidanzata rimanemmo a piedi perché il mio amico aveva da lavorare. E lui si offrì di portarci a casa in auto con la sua jeep, che era tutto un programma, in stile con il suo personaggio. Per me fu una cosa incredibile. Mi piaceva come cantante ma da quel momento diventai un sorcino vero“.
Un evento che davvero gli ha cambiato la vita. E gli incontri negli anni sono sempre stati tanti: “Una volta andò vicino al Bar Pucci, a Musicarte. E quando arrivava era sempre molto scenografico. Io lo riconobbi, lui mi vide al bar e mi disse ‘Tu pure qua stai?’. E da allora diventammo quasi amici”. Tanto che qualche volta si fermò lì per un caffè: “Non era un amante delle foto, ma una volta lo convinsi a farne alcune con me, mio padre e mia madre. Era l’anniversario di matrimonio dei miei, lo vidi e lo fermai. Gli dissi ‘Ora devi farmi una dedica’. Comprai il suo nuovo album e fece una dedica speciale ai miei per il loro anniversario“.
Addirittura fu cliente di Animal Mini, dove Massimo lavorò per qualche tempo dopo la chiusura del bar: “Aveva dei cani – dice Massimo – e portavo le pappe a casa sua. Addirittura si fissò una volta di voler comprare il pappagallo di Benito (Gentili, il proprietario del negozio, ndr), tanto che glielo portammo a casa un paio di volte e se ne innamorò. Con Renato Zero c’è stato sempre un rapporto speciale e che porterò sempre nel mio cuore”.
Insomma tanti ricordi speciali legati a quel bar. Poi nel 1990 la decisione di chiudere: “Con il passare degli anni il bar era diventato un po’ vecchiotto, le norme si facevano sempre più rigide e l’età dei miei avanza. Così un giorno mi sono trovato davanti a un bivio: continuare da solo o chiudere. E allora ho preferito vendere perché da solo non ce l’avrei fatta a gestirlo. Finché un’attività è in ambito familiare va bene, ma quando devi farlo con altri diventa tutto più complicato. Ma non me ne sono pentito“.
Una chiusura che per tanti è stata la fine di un’epoca: “Devo dire la verità che era difficile uscire di casa. Tutti quelli che incontravamo ci dicevano sempre ‘Ma perché avete chiuso?’. Abbiamo sofferto questo più che la chiusura stessa, ma abbiamo capito che per tanti, non solo per noi, aveva significato tanto quel posto. Ancora oggi chi mi riconosce in zona si ricorda del bar”.
La famiglia Pucci ha continuato per anni ad abitare lì sopra: “Mia madre ha lavorato per altre tavole calde di zona – ricorda Massimo – io invece andai all’Animal Mini di piazza dell’Unità”. Poi la vita lo ha portato lontano da Prati: “Prima mi sono trasferito a L’Aquila per 10-12 anni, poi dopo il terremoto ho deciso di cambiare vita e di trasferirmi in Francia, a Nizza”.
E lì a Nizza si sono trasferiti anche Anna e Dante, che oggi hanno 83 e 91 anni: “Ma – ammettono tutti – abbiamo sempre Prati nel cuore”. E Massimo ammette: “Torno spesso a Roma e non posso mancare di fare una visita al quartiere. Gli arancini di Franchi sono una tappa fissa (ride, ndr). E come non passare dal Colosseo. Anzi, al Colosseo non ci sono andato ma da Franchi sì. E poi da Cantiani, all’Animal Mini, a quelli che sono stati i punti di riferimento di una vita lì, ma non solo per me ma per tanti che hanno abitato il quartiere”.
Oggi al posto del Bar Pucci però c’è ancora un altro bar: “Qualche anno fa ci sono passato e ai gestori ho raccontato la nostra storia. Mi hanno portato anche sotto, dove c’erano le cantine. E ho rivisto addirittura una cella frigorifera che montammo io e mio padre. Quello sì che mi ha fatto un certo effetto. Trovare una cosa ‘nostra’ a tanti anni di distanza mi ha quasi commosso. Dietro avevo mio figlio e gli dissi ‘Forse per te questo è solo un frigo, ma per me è molto di più'”.
Oggi però quella Prati che ha visto crescere il Bar Pucci non c’è più: “È molto diverso il quartiere – ammette Massimo -. Non c’è più niente che mi riporta a quell’epoca. Anche i negozi storici, sono rimasti pochissimi. Noi siamo capitati nel boom e abbiamo vissuto un’epoca incredibile. Che oggi però è solo un vecchio ricordo”. Già, ma un bel ricordo, che in tanti non vogliono dimenticare. E che tanti devono invece conoscere. Perché la storia a Prati è passata anche per quel bar.