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“Mai più”, il viaggio della memoria del Liceo Dante
a cura di Marco LiberatiGuardare con i propri occhi l’orrore, quello reale e non virtuale, raccontato dai libri di storia. Lo scorso 4 novembre il Comune di Roma ha organizzato il Viaggio della memoria nei campi di sterminio di Auschwitz e Birkenau, a cui si è aggiunta la tappa ad Amburgo in Germania, per ricordare la strage di venti bambini, tra cui Sergio De Simone, uccisi nel campo di Neuengamme dopo essere stati sottoposti ad esperimenti medici. Il quartiere Prati ha partecipato a questo viaggio anche con gli studenti del liceo ginnasio statale Dante Alighieri. Quattro ragazzi hanno voluto scrivere la propria esperienza, intima e di grande impatto emotivo, attraverso quattro racconti che spiegano come un viaggio come questo serva a dare un senso alle parole “mai più”.
L’opportunità di sapere
di Chiara Maiorano, V B
Come poter avvicinare gli studenti a un tema così importante come l’Olocausto?
Non potrebbe esserci modo migliore se non quello di portarli a visitare i luoghi direttamente interessati? Forse proprio alla base del viaggio della memoria, promosso dal Comune di Roma, c’è l’esigenza di sensibilizzare gli studenti, rendendo concreto un fenomeno di cui sentono parlare esclusivamente a scuola e di rado da altre fonti. Come ormai da molto tempo, anche quest’anno il progetto ha raggiunto la sua realizzazione, favorendo non solo una crescita a livello culturale, ma soprattutto incoraggiando una maturazione sul piano personale.
Il viaggio è partito da Cracovia, in cui è stato possibile visitare non solo l’ex ghetto della città, ma anche il campo di sterminio di Birkenau e il campo di concentramento di Auschwitz I. Tutta l’esperienza e in particolar modo la visita ai campi, è stata resa più viva e intensa dalle testimonianze di due superstiti del campo di Birkenau, Tatiana Bucci e Sami Modiano, che hanno rappresentato una fonte d’ispirazione nel corso del viaggio. Senza alcun dubbio la straordinarietà delle loro testimonianze è che possono regalare emozioni vere a chi nemmeno può immaginare tutto l’accaduto, cosa che sicuramente non potrebbe offrire una lezione svolta a scuola.
In seguito il viaggio è proseguito in Germania, ad Amburgo, dove ha avuto luogo la visita del campo di Neuengamme e della ex scuola di Bullenhuser Damm, per poi concludersi con la visita della città. È stata sicuramente propizia la scelta di aggiungere la tappa di Amburgo, in quanto porta alla conoscenza di fatti completamente sconosciuti e in passato ignorati.
Il pulsante dell’odio
di Giovanni Dalli Cardillo, V D
La mattina del 5 novembre mi trovavo nel campo di sterminio di Birkenau, tra la baracca 11 e la 12 della sezione maschile, rivolto verso un muro di filo spinato, davanti al quale Sami Modiano, sopravvissuto alla Shoah, condivideva con me e con il resto del gruppo il suo tragico vissuto. In quel momento continuava a risuonare nella mia testa l’eco delle parole da lui stesso pronunciate durante la sua precedente testimonianza nel nostro liceo. Un imperativo in particolare emergeva rispetto a ciò che raccontava: “mai più”. Un’eco lentamente divenuta grido, un grido che non deve essere strozzato , perché tutti capiscano che crimini del genere non devono essere consumati “mai più”.
Un sentimento emergeva su tutti mentre vedevo quei luoghi e udivo quelle testimonianze: l’estraniazione. Non capivo come l’uomo avesse potuto esercitare tanta violenza nei confronti di altri uomini.
Molti dei carnefici nelle loro testimonianze si dichiararono innocenti e meri esecutori di ordini. Non voglio discutere sulla decisione di perdonare o meno, o sulla scelta, aut-aut, imposta ai soldati nazisti di uccidere o essere uccisi. Voglio invece “ricordare” e invitare tutti a fare altrettanto. Voglio anche ragionare su quanto è avvenuto, per capire come sia stato possibile. Nella vita di una persona non c’è periodo più fecondo di quello di una crisi. L’identità di ciascuna persona si forma attraversando periodi difficili. Tuttavia non bisogna sottovalutare il fatto che nei momenti di crisi siamo più vulnerabili e la nostra condotta può essere plagiata dall’illusione che ci sia un pulsante da premere, che ci faccia tornare a stare bene. Questo pulsante è l’odio. Non c’è nulla di più semplice che catalizzare tutto il male che stiamo vivendo nell’odio, e stiamo vedendo, oggi più che mai nella società di internet, come l’odio sia facilmente condivisibile. L’odio unisce le persone più facilmente di quanto non lo faccia l’amore. L’odio è la deresponsabilizzazione di sé, che, individuando un nemico, gli scarica addosso la nostra miseria, emotiva ed esistenziale. Canalizzando la mia frustrazione verso qualcosa o qualcuno non risolvo la mia crisi, ma semplicemente gettando il mio dolore nell’odio verso gli altri, spreco una grandissima occasione di crescita e di acquisizione di autocoscienza.
Gli “occhialoni”
di Francesca Tersigni, V A
Ad Auschwitz ho visto un paio di scarpe, sotto una montagna di altre scarpe. Mi hanno colpito perché erano scarpe simili a quelle che avevo visto una volta indossare in una foto in bianco e nero in un album di famiglia. Quei sandali con i buchini – “gli occhialoni” come li chiama mia nonna – erano un paio dei tanti, eppure li ricorderò sempre perché appartenevano a un bambino, che non è cresciuto, che non ha mai avuto scarpe più grandi di quelle. Quando vediamo Auschwitz, vediamo la fine di un processo, ma l’Olocausto non è iniziato dalle camere a gas, è iniziato dai commenti razzisti, dai pregiudizi e da un clima di odio e di violenza. Oggi sento analoghi toni. È un grande errore considerare l’Olocausto come una parte passata della storia, qualcosa di lontano nel tempo: ciò che è accaduto può accadere di nuovo. Le spinte nazionaliste, le ideologie razziste, la negazione di valori democratici, l’odio per il “diverso” rigurgitano nelle parole e nei pensieri di chi spaccia soluzioni semplicistiche e ricerca capri espiatori a fronte delle complessità della modernità. Come canta Guccini: «Ad Auschwitz tante persone, ma un solo grande silenzio: è strano non riesco ancora a sorridere qui nel vento…». È vero. Quando si entra ad Auschwitz, si sente un grande silenzio. Il silenzio di milioni di persone, le vittime, ma anche il silenzio di chi non ha parlato e non ha reagito di fronte ai quei fatti, ma anche e soprattutto nella fase precedente: quella dei pensieri e delle parole di odio.
L’efficienza nazista
di Valeria Ottaviano, V C
Il concetto di “efficienza” assume, indubbiamente, una connotazione positiva nella società attuale, che ha fondamento nella produttività del singolo individuo. Una persona è definita efficiente se adempie ai propri compiti nel modo più rapido possibile, raggiungendo lo scopo auspicato senza incorrere in complicazioni. È inquietante, tuttavia, quanto l’efficienza abbia avuto una connotazione positiva anche nell’orrore dell’Olocausto. Il fine del governo tedesco era sterminare centinaia di migliaia di ebrei, e non solo, per ottenere una Polonia germanizzata. Dunque era ritenuto efficiente il soldato che, senza porsi troppe domande, si rivelava spietato affamando comunità intere, sfinendo coloro che erano costretti a lavorare e decimando la popolazione ebraica e le minoranze della Polonia. A questo proposito, lo storico Marcello Pezzetti, che ci ha guidati nel Viaggio della Memoria, ha raccontato che i tedeschi ingannavano fino all’ultimo le vittime dei campi di sterminio, così da evitare ribellioni o disordini. Ad esempio, allestivano gli spazi che precedevano le camere a gas come delle palestre, con armadietti numerati, raccomandandosi con le vittime di ricordare bene dove avevano riposto i propri averi, illudendoli che sarebbero tornati a recuperarli. Mentivano così per evitare una ribellione, per portare a termine il compito assegnato in modo rapido e indolore, per essere efficienti. E quando l’efficienza è una priorità, la pietà e l’umanità possono passare in secondo piano: la produttività come valore assoluto aveva trasformato degli uomini in vere e proprie macchine, incapaci di compiere azioni mosse da compassione contro gli ordini impartiti.