21 Ottobre 2020 - 19:07 . Talenti . Curiosità
Io, professore in pensione, vi racconto perché non potrei mai lasciare il quartiere
di Bruno Magistri
Talenti.
Ci sono arrivato sul finire degli anni ’70, seguendo un sogno, una promessa di vita.
Non me ne sono più andato.
All’inizio, la scoperta straniante della toponomastica. Chi si ricordava più di Jacopo Ferretti, di Ludovico di Breme, di Gaspara Stampa?
La strada principale: bella, larga, alberata, lunghissima, intitolata a quel vecchio dandy di Ugo Ojetti…
Le strade cingevano isolati di palazzine eleganti di quattro o cinque piani, tantissimi spazi verdi in punti cruciali del quartiere.
Vicino a negozi eleganti, trovavi le botteghe degli artigiani: c’era il ciabattino, c’era un falegname, dalla signora Maria portavi i quadri da incorniciare, Giovanni era un bravissimo barbiere.
I miei luoghi d’elezione erano la libreria, il giornalaio, la tabaccheria dove trovavo splendidi arnesi da fumo, da fare invidia ai negozi del centro.
Poi le altre esigenze: la scuola, la società sportiva per i figli che crescevano.
Era difficile uscire dal quartiere, la viabilità è sempre stata un problema.
Tutto questo portava una sensazione di autosufficienza. Il quartiere bastava a se stesso. Ci fossero stati anche un cinema dignitoso e un teatro…
Era il resto della città a venire da queste parti. C’erano boutique e jeanserie che richiamavano clienti da altri quartieri. Solo dopo anni scoprimmo che, in incognito, nel quartiere aveva operato un famosissimo chef.
Man mano i cambiamenti. Nuove architetture, centri commerciali giganteschi, il verde sempre più malato, il degrado incombente come in tutta la città.
Ma proviamo a resistere. Sono nate diverse associazioni ambientaliste che sono riuscite a salvare il nostro verde. Anche se un po’ più “sgarrupate”, le nostre scuole sono vive. Abbiamo un’offerta formativa che copre tutto il ventaglio delle richieste scolastiche.
È ancora bello passeggiare per le nostre strade, anche se nessuno tappa le buche, nessuno taglia le erbacce dai marciapiedi e nessuno svuota con regolarità i cassonetti. Il traffico è sempre caotico e ad ogni pioggia le piazze si trasformano in laghetti.
Il quartiere invecchia.
O forse sono io ad essere invecchiato. Sono i miei occhi a fermarsi su altri panorami. Sono aumentate le farmacie. Sono grandissime, sono tante. Significa qualcosa?
La pandemia ci ha fatto scoprire cose nuove. Quel senso di autosufficienza si è rafforzato. I supermarket hanno istituito un servizio di consegna a domicilio. La stessa cosa hanno proposto anche aziende agricole e piccoli esercenti.
Il giornalaio mi tiene da parte i fumetti e i libri delle collane che mi interessano, la libreria mi manda sms con le novità di stampa (grazie a Dio non sono sui social). Il tabaccaio mi rifornisce di sigari e battute in fiorentino purissimo. La società sportiva è frequentata dai miei nipoti. Chissà che fine ha fatto quel papà che scrisse una bellissima lirica sulla squadra dei Pulcini dell’87?
Forse continua a camminare con passo lento, cercando di evitare buche, erbacce e pozzanghere, lungo le strade di questo che resta, comunque vada e comunque sia andata, un bellissimo posto dove continuare a vivere.
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