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Sicurezza a Roma: occhi cinesi e il “fattore umano” che manca
di Vincenzo Fenili *Dopo avere parlato dei problemi della sicurezza durante i giorni del G20, circostanza tanto straordinaria quanto complessa, può essere interessante fare qualche riflessione sullo stato della sicurezza a Roma nella vita di tutti i giorni. La Capitale è una città straordinaria e unica sia nel contesto italiano che internazionale. A renderla particolare sono certamente l’estensione e le caratteristiche orografiche ed urbanistiche, ma anche il fatto che da sempre è per sua natura fortemente cosmopolita: eppure possiamo considerarla una città abbastanza “tranquilla”. Ovvero, rispetto alle sua caratteristiche, l’entità dei reati non è rilevante.
Quando parliamo di reati, in generale ci riferiamo a quelli con maggiore impatto sociale nella vita di tutti i giorni, come quelli legati alla microcriminalità, ovvero furti, borseggi, aggressioni a vario titolo e atti di vandalismo, per poi passare a fatti più gravi come rapine, spaccio, estorsioni, violenza sulle donne e bullismo, nelle sue varie declinazioni. C’è una vecchia diatriba tra chi auspica l’aumento della presenza delle forze dell’ordine sul territorio e chi invece ritiene che questo sia un falso problema. Personalmente sono per la seconda interpretazione. Se guardiamo ai freddi numeri, la media italiana dei tutori dell’ordine per ogni 100mila abitanti è di 453, la più alta nell’Unione Europea. A Roma ve ne sono addirittura 882 ogni 100mila abitanti, ovvero un poliziotto, carabiniere, finanziere etc. ogni 113 abitanti. Se volessimo paragonarci a un vero stato di polizia, la Cina, e disponendo solo di numeri ufficiali (tutti da verificare) saremmo noi a doverci considerare uno stato di polizia: in Cina ci sono “soltanto” 157 poliziotti ogni 100mila abitanti ma l’ordine è mantenuto prima di tutto con conseguenze dissuasive davvero estreme che poco si conciliano con uno stato democratico come il nostro. È abbastanza evidente che aumentare il numero di coloro che sono addetti alla tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica non è necessariamente la soluzione per stroncare, o almeno far diminuire, il numero dei reati in generale e in particolare di quelli con il più alto impatto nel sentire comune: questo fatto è ancor più confermato in considerazione dell’eccellente lavoro che le nostre forze dell’ordine fanno in termini di prevenzione e di polizia giudiziaria.
Roma, paragonata alla media delle città italiane, è tutto sommato una città vivibile e abbastanza serena se ne parametriamo statisticamente l’estensione, l’eterogeneità della popolazione e la presenza di una pletora davvero impressionante di rappresentanze diplomatiche, di agenzie internazionali e un gran numero di sedi istituzionali, di partito e sindacali. L’elenco delle presenze “sensibili” nella nostra città è davvero impressionante: queste sedi richiamano, per vari motivi, una quantità straordinaria di stranieri, che a vario titolo e trasversalmente, da un punto di vista sociale e culturale, animano la città e talvolta contribuiscono al numero di reati commessi. Reati che ovviamente non dipendono solo dal gran numero di stranieri ma è indubbio che esso porta un suo contributo.
In questo contesto è logico chiedersi se la tecnologia non potrebbe darci una mano. Già da tempo si parla di “polizia predittiva”, argomento trattato per la prima volta in un racconto del 1956 di P. Dick che poi divenne un film blockbuster di grandissimo successo, “Minority Report”. Asse portante della predittività dovrebbe essere un numero elevatissimo di videocamere di sorveglianza installato in ogni angolo e recesso delle nostra città, con software avveniristici… che peraltro già esistono: i dati delle videocamere verrebbero trasmessi a server che utilizzando gli algoritmi dell’intelligenza artificiale per interfacciare dati personali, anomalie comportamentali ed espressive e un’infinità di altri elementi, dovrebbero consentire, in linea teorica, di prevedere un evento criminale prima che esso possa essere commesso. Ma tutto ciò è davvero possibile?
A parte le ovvie considerazioni sul potenziale e incalcolabile danno alla privacy di ognuno di noi, vi sono anche questioni di capacità di gestione di questi megadati. In questo settore vi sono delle aziende assolutamente all’avanguardia che utilizzano anche sofisticati software georiferi che permettono, ad esempio, di porre in relazione sulle mappe le ricorrenze e le incidenze di reati sia con i soggetti a rischio sia con quelli che potenzialmente potrebbero commetterli… il tutto sempre con un vasto uso anche dei dati forniti da telecamere di sorveglianza, droni e software di riconoscimento facciale. Sembra fantascienza ma non lo è affatto: alcune startup avveniristiche come l’israeliana Corteca e l’indiana Best Group sono già all’avanguardia nel campo della “previsione” di un crimine. La Palantir Technologies americana, sempre in questo settore, è già operativa con la NSA e l’aereonautica militare USA anche nel settore antiterrorismo.
Roma è la prima città italiana per presenza di telecamere di videosorveglianza con due telecamere ogni mille cittadini e si trova al 50° posto nella classifica mondiale: niente male in assoluto, anche se ben lontana da Chongquing (Cina) con 163 telecamere ogni mille abitanti. Il Comune di Roma, un po’ come tutta l’utenza di settore, utilizza perlopiù prodotti cinesi: le piattaforme tecnologiche e le videocamere che osservano i romani sono principalmente prodotte dalla ZTE di Shenzhen (leader nel 5G e nel GSM) e dalla D-Link di Taipei. Come se non bastasse, altre 1000 telecamere Hikvision sono state acquistate dal nostro ministero della Giustizia nel 2017 e sorvegliano tutti i centri dove sono conservati dati estremamente sensibili tra cui quelli provenienti dalle sale intercettazioni. Affidarsi a “occhi cinesi” è probabilmente la conseguenza di un processo in cui sono stati valutati aspetti di efficienza tecnologica e convenienza economica, ma le tre aziende di cui sopra sono state bandite dal governo USA sin dai tempi dell’amministrazione Obama in quanto c’è la possibilità che tutto quello che viene gestito da queste tre piattaforme possa essere penetrato dai servizi cinesi. Non a caso il nostro ministero della Difesa pare abbia rifiutato queste società per la protezione e sorveglianza delle proprie installazioni.
Ora io credo fermamente che tutta questa strabiliante tecnologia che, forse non solo teoricamente, potrebbe consentire una riduzione almeno della microcriminalità vicina allo zero anche nella nostra città, rischi di essere più parte di un enorme problema che non la soluzione al tema della polizia di prevenzione. Avere affidato ad aziende straniere, in questo caso cinesi, la videosorveglianza di Roma (e probabilmente di altre città italiane) vuol dire nel migliore dei casi avere affidato alle loro piattaforme tecnologiche Exabyte di dati che – al di là degli accordi stipulati, magari rigorosi – non sappiamo come verranno gestiti.
Personalmente ritengo che l’approccio tecnologico esasperato al problema della sicurezza nella nostra società sia un disastro potenziale: questo stesso errore è stato commesso nel mondo dell’intelligence da quando si è cominciato a fare sempre più affidamento sull’ ELINT (ELectronic INTelligence), ovvero dati provenienti dalle più disparate fonti “elettroniche” come satelliti, intercettazioni etc. etc, e sempre meno sull’ HUMINT (HUMan INTelligence) che è molto semplicemente quello che un operatore umano vede, sente e percepisce sul campo: nessuna tecnologia può eguagliare le capacità di un essere umano (soprattutto se ben addestrato) di analizzare profondamente un certo contesto. La soluzione per la prevenzione, e in una certa misura per la predizione della microcriminalità nelle nostre città, è infinitamente più semplice del terribile Panopticon tecnologico verso il quale sembra che siamo avviati e si basa quasi unicamente sull’utilizzo del “fattore umano”, ovvero di quell’HUMan INtelligence che si vorrebbe considerare ormai obsoleto: la necessaria armonizzazione tra umanità e sviluppo tecnologico costituisce la base verso un “progetto umano” sostenibile e non può dipendere dall’intelligenza artificiale, bensì dalle nostre volontà e capacità, ovvero da noi stessi prima di tutto.
Parlando di sicurezza ma senza voler fare paragoni inappropriati, c’è un termine di riferimento che ritengo ancora assolutamente valido e attuale: lo stato di Israele. Ho avuto la possibilità di passare dei periodi non brevi in quel Paese per motivi professionali, vivendolo non da turista ma a contatto anche con le forze di sicurezza e spesso con le loro famiglie e amici, e c’è una cosa mi ha sempre colpito: l’estrema coesione sociale nella vita di tutti i giorni. I cittadini israeliani si sostengono a vicenda in modo totale e pieno. Indipendentemente da qualsiasi personalizzazione, il senso della Nazione è estremamente forte e condiviso a tutti i livelli e questo è esattamente ciò che manca in gran parte dell’Occidente e sicuramente in Europa: sconfiggere criminalità (e terrorismo) sono sfide che si vincono anche se la popolazione è coesa… e a noi questa coesione manca sempre di più. Roma non fa eccezione, avere forze dell’ordine vigili ed efficienti non è abbastanza: i cittadini devono imparare a proteggersi e questo non vuol dire avere ronde di quartiere o vivere in uno stato di paranoia ma semplicemente avere un livello generale di attenzione più alto con il semplice fine di preservare il bene comune e l’integrità della nostra società democratica. In un certo senso, dovremmo forse ritenerci tutti “tutori dell’ordine”: è quello che sociologicamente si definisce “controllo sociale”, estremamente sviluppato nelle piccole comunità (i paesini, per esempio) e totalmente diluito e disperso nelle grandi città.
Imparare a essere consapevoli di ciò che ci circonda e del proprio ambiente, è secondo me il fondamento di una società più sicura e nessuno strabiliante strumento tecnologico potrà mai sostituire “il fattore umano”.
* (Vincenzo Fenili è un esperto di sicurezza ed ex agente sotto copertura in forza a vari servizi di intelligence italiani e nell’ambito Nato. Con lo pseudonimo di Kasper ha scritto, insieme a Luigi Carletti, il romanzo-verità “Supernotes”, edito da Mondadori nel 2014).
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