Il Poligrafico e la Casa dell’Automobile in quella piazza Verdi che non c’è più
Come tutte le grandi piazze di Roma, piazza Giuseppe Verdi è esposta a mutamenti che, nel tempo, l’hanno trasformata, facendone ora un angolo di modernità dal sapore avveniristico, ora un accogliente punto di ritrovo, ora un’area di parcheggio, come è oggi.
Dominata dall’imponente mole del palazzo del Poligrafico dello Stato, oggi abbandonato, delimitata sul fronte opposto da alcuni bei palazzi che a taglio si inseriscono su eleganti vie di un’area residenziale tra le più prestigiose della città, la piazza vede ergersi, quasi di fronte al Poligrafico (o palazzo della Zecca), un edificio assai caratteristico per via delle grandi vetrate che nei giorni di sole fanno ancora la loro figura. Si tratta del palazzo dell’Enel, sorto per ospitare gli uffici di quell’azienda e che oggi ha altra destinazione.
Per quanto in certe giornate di sole faccia ancora la sua figura, non può darsi torto a Pietro Citati che, nel suo “Elogio del pomodoro”, lo chiama “mostro” come chiama “mostro” anche il palazzo della Zecca. Non solo stonano con gli altri edifici che si affacciano fin sulla piazza, ma i due “mostri” appaiono a chi vi passeggi incombenti, visibili come sono da tutti i punti del vasto spazio per il quale si estende piazza Verdi. Allora pensi a quanto sia diverso affrontare i percorsi di una grande città a piedi o attraversarla in automobile o magari affacciato al finestrino di un autobus turistico.
Sarà forse per questo che oggi, ad andarci a piedi, senti nostalgia dei tempi in cui piazza Verdi era la piazza del mercatino dell’antiquariato e ti capitava, passando in macchina un sabato pomeriggio, di vederla semideserta perché pronta a ospitare il giorno dopo tendoni e bancarelle. Passando per quegli improvvisati e stretti corridoi che si aprivano lungo le file delle bancarelle, l’occhio era colpito da aggeggi strani e affascinanti, di quelli che ti ricordano l’infanzia, quando aprivi i cassetti nella cucina di nonna, o entravi in punta di piedi nel salotto a sbirciare le bellezze, più presunte che vere, dello spazio riservato agli ospiti di riguardo. Tolto il mercatino, resta la piazza, con i due mostri architettonici in abbandono.
Sono tante le città che in Europa hanno questa caratteristica e tu passi in auto davanti a imponenti costruzioni, ammirato per non sai quale (finta) magnificenza.
Pensi a questo punto che non fosse un caso che un tempo sorgesse, dove oggi sorge il palazzone a vetri già dell’Enel, la Casa dell’Automobile. Si trattava di un edificio bianco (forse per intonarsi al maestoso palazzo del Poligrafico dello Stato) a dieci livelli, ai quali si accedeva per un sistema di rampe che salivano a chiocciola al centro della costruzione. All’esterno, come può vedersi dalla foto, tratta dal numero di febbraio del 1930 del mensile “le vie d’Italia”, la struttura è ad arcate disposte su tre piani.
I lavori di costruzione dell’edificio, concepito dall’architetto Enrico Bacchetti, iniziarono nel febbraio del 1928 e terminarono nell’aprile dell’anno dopo.
Da un libro scritto nel 2015 da Tullia Iorio e curato da Alessandro Marzo Magno per l’editore Gangemi di Roma abbiamo tratto queste interessanti informazioni: “Al congresso di Liegi del 1930, dedicato alla costruzione in cemento armato, l’Italia presenta non una delle architetture più moderne, ma la Casa dell’Automobile, costruita in piazza Verdi a Roma (ora demolita), edificio che, nonostante le tradizionali facciate disegnate dal quasi sconosciuto architetto Enrico Bacchetti (a causa delle quali sarà inserito nel Tavolo degli Orrori alla seconda esposizione del Miar, acronimo del Movimento italiano per l’architettura razionale), è ritenuto negli ambienti dei tecnici la più avanzata costruzione in cemento armato della Capitale, con la doppia rampa a eliche contrapposte, costituite di sottilissime solette che conducono ai box per le auto, vere e proprie stanze provviste di apparecchio telefonico, presa d’aria compressa per il gonfiamento degli pneumatici, rubinetto per il lavaggio”.
A chiarimento di quanto riportato va precisato che il Miar negli anni Trenta si poneva in polemica con l’architettura ufficiale. Quest’ultima, che non sempre fu architettura di regime, ebbe senz’altro dei limiti e non primeggia per quanto riguarda il buon gusto, molto concedendo alla monumentalità. E monumentale doveva essere almeno all’esterno la Casa dell’Automobile i cui motivi richiamavano il quasi coevo palazzo della Zecca, inaugurato l’anno precedente.
Ciò non toglie che cose buone possono farsi anche partendo da presupposti discutibili. E a me pare che la Casa dell’Automobile rientrasse in questa tipologia di cose ben fatte. Mi riferisco alla “doppia rampa a eliche contrapposte” che erano una per la discesa e l’altra per la salita e che si sviluppavano secondo un disegno che è stato paragonato al pozzo di San Patrizio.
Per averne un’idea, si veda l’altra immagine, tratta sempre dallo stesso numero de “Le vie d’Italia”, che dà lo “spaccato” dell’edificio.
Inaugurata nel 1929, alla presenza delle “Loro Maestà” come da protocollo erano indicati nei comunicati ufficiali Vittorio Emanuele III e Elena di Montenegro, la Casa dell’Automobile costituì un’attrattiva del quartiere, un punto di riferimento, cosa che dimostra come fosse nota un po’ a tutti. La “casa” accoglieva preferibilmente le auto di lusso, come ricorda Miriam Mafai ne “Il lungo freddo”, un romanzo dedicato alla vicenda del fisico italiano Bruno Pontecorvo, e ambientato a Roma nei primi anni Cinquanta, quando al top della produzione automobilistica c’era la famosa Lancia Aurelia.
Del resto, a quanti non potessero permettersi per la loro utilitaria o per la loro berlina un garage così confortevole, il luogo doveva apparire come ideale ricovero di un oggetto prezioso da custodire che ci si era acquistati rinunciando ogni giorno a qualcosa. E chissà quanti neoproprietari di piccole Seicento saranno passati davanti alla Casa dell’Automobile, cacciando qualche sospiro d’invidia per i “ricchi”.
Non pochi ancora ricordano la Casa dell’Automobile di piazza Verdi proprio come rifugio delle auto poste come a riposare tranquillamente in un garage esclusivo, dove, a richiesta, era possibile avere un minimo di assistenza. Di qui all’occasione le auto venivano prelevate magari per la gita domenicale ai Castelli.
Se il ricordo del tempo che fu nobilita non poco quel che più o meno fatalmente sparisce, vale comunque la pena far riaffiorare alla memoria il passato sepolto. Ed è a questa esigenza che si è voluto cedere riproponendo la storia di uno spazio architettonico che non c’è più.