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Romah24 visita la soffitta “della salvezza”. Ecco di cosa si tratta
Luisa UrbaniLa redazione di Romah24Prati ha fatto un tuffo nel passato, alla scoperta del sottotetto “della salvezza”. Si tratta della soffitta della chiesa di San Gioacchino in Prati dove, durante l’occupazione nazista di Roma, trovò rifugio un gruppo di perseguitati ebrei.
Era il 25 ottobre del 1943 quando lo spazio tra la volta a botte della chiesa ed il tetto divenne il rifugio per molte persone: ebrei, disertori, dissidenti politici, uomini che rifiutavano la leva e ragazzi. Il locale fu attrezzato per come si poteva e fu la casa di queste persone fino alla liberazione di Roma del giugno successivo. In quel periodo furono ospitate complessivamente 30 persone, ma nel sottotetto risiedettero stabilmente una dozzina di uomini che presero il nome di componenti della “sezione aerea di San Gioacchino” (S.A.S.G.).
Oggi, a distanza di oltre 70 anni, tutto è rimasto come era prima. È come se la polvere avesse fermato il tempo. La cosa che colpisce, oltre al gelo, è il silenzio. L’unico rumore sono le travi di legno che scricchiolano al nostro passaggio.
Guardando quella “stanza” è difficile poter immaginare come così tante persone abbiano vissuto per tutto quel tempo lì dentro. Una ambiente freddo, poco illuminato e con un pavimento pressoché inesistente. E la cosa che stupisce di più, come ha sottolineato anche padre Pietro, attuale parroco della chiesa e nostro cicerone, “è la capacità di queste persone di organizzare la vita all’interno di uno spazio così angusto. Colpiscono anche la loro creatività e fantasia”. Nonostante la drammaticità della situazione, la poca ospitalità della stanza, l’essere letteralmente murati vivi, il dover vivere in silenzio per non essere scoperti, erano capaci di giocare, disegnare e divertirsi. “Questi uomini non si persero d’animo e iniziarono ad organizzare campionati di tressette, alcuni di loro fecero anche delle caricature per raccontare la vita della soffitta”, racconta padre Pietro.
All’ingresso, a terra, si trovano ancora i mattoni usati per murare l’ambiente, poi distrutti per liberare le persone, una volta terminato il pericolo. Poco più avanti qualche calcinaccio e alcune bottiglie di vetro. Sui muri, si vedono ancora i disegni che furono fatti da alcuni rifugiati: il volto di Cristo e una Madonna con il Bambino. Poco più in la, il ritratto di un uomo seduto su una sedia con il volto tra le mani. Sulla parete di fronte, un crocifisso degli anni ‘20. Tutt’intorno, le travi di ferro che reggono il tetto, usate dai rifugiati come stendi panni.
La stanza è illuminata dal rosone centrale, unica fonte di luce di tutto l’ambiente nonché unica via di comunicazione con il mondo esterno, dato che la porta di accesso al locale fu murata per essere mimetizzata. Dal rosone superiore della facciata, infatti, entrava tutto il necessario: cibo, acqua, vestiti, medicine e anche alcuni giochi per passare del tempo.
Una storia difficile a credersi se non ci fossero stati testimoni diretti e che rappresenta una pagina esemplare di carità che si è conclusa a lieto fine grazie all’impegno di Pietro Lestini, padre Antonio Dressino e suor Margherita Bérnes, che si prodigarono in mille modi per mettere al sicuro altri esseri umani.