6 Marzo 2021 - 18:47 . Trieste-Salario . Cronaca

Morte del maresciallo Eugenio Fasano: i punti che le inchieste dovranno chiarire

Il maresciallo Eugenio Fasano
Il maresciallo Eugenio Fasano

di Luigi Carletti

Nel gennaio del 2020, quindi poco più di un anno fa, la famiglia di Eugenio Fasano ha presentato denuncia alla Procura della Repubblica e alla Procura militare di Roma chiedendo di fare luce sulla morte del maresciallo dei carabinieri in servizio nella caserma Salaria di via Clitunno, nel quartiere Trieste-Salario. Il suo caso, archiviato come “decesso da collasso cardiocircolatorio” in seguito a una partita di calcetto tra colleghi, viene così riaperto.

La denuncia, patrocinata dal professor Donato Santoro, legale della famiglia, esprime una serie di dubbi e di perplessità sulla ricostruzione ufficiale dei fatti. Le due procure avrebbero potuto archiviare rapidamente, ritenendo l’istanza dei familiari del tutto infondata, oppure avrebbero potuto disporre le necessarie indagini per chiarire alcuni punti e accertarne l’eventuale fondatezza. E questo è ciò che hanno fatto i magistrati: le due inchieste vanno avanti da un anno, con la raccolta di testimonianze e con tutte le altre normali attività che un’indagine – certamente complessa e delicata – deve prevedere.

Perciò, se da un lato è comprensibile lo sconcerto, e anche il fastidio, di chi vede in questa notizia l’ennesimo rischio di gettare ombre sulle istituzioni e sui loro uomini, dall’altro non deve mai mancare la volontà di fare chiarezza e di eliminare ogni dubbio, proprio nell’interesse di quelle istituzioni che – lo ricordiamo – sono di tutti, e non solo di coloro che temporaneamente le rappresentano, sia che indossino una divisa oppure no. L’auspicio che tutti dovremmo formulare in un caso come questo, è che le inchieste arrivino a compiere il loro percorso il prima possibile e al meglio possibile, facendo luce su ogni punto attualmente poco chiaro e spiegando – prima di tutto ai familiari della vittima – l’esatta dinamica dei fatti e appurando – se ce ne fossero – le eventuali responsabilità di altri. Parliamo della morte di un sottufficiale di 43 anni, laureato in giurisprudenza e arrivato primo al concorso marescialli, legatissimo alla moglie e alle sue due bambine, amatissimo nel quartiere in cui aveva preso la residenza, stimato in tutto l’ambiente dell’Arma e apprezzato anche per il suo lavoro nelle scorte a personaggi pubblici. Fugare ogni dubbio sulla sua morte è un dovere civile, etico e morale, prim’ancora che il giusto obiettivo di un’autorità inquirente. E quindi, cerchiamo di capire quali sono i dubbi che la famiglia di Eugenio Fasano ha formulato nella denuncia presentata ai magistrati romani.

Eugenio Fasano

1) LE FERITE SUL CORPO

Eugenio Fasano arriva al Policlinico Umberto primo in coma profondo da arresto cardiaco e asistolia, ovvero mancato afflusso di sangue al cervello. Risultano però anche ferite sul corpo che la famiglia e il suo legale ritengono difficilmente compatibili con le manovre di rianimazione che si sarebbero svolte nello spogliatoio dopo il malore: si parla di dodici costole fratturate, di rottura dello sterno e versamento nello scavo pelvico, di tre costole che hanno trapassato il polmone destro creando una grave emorragia interna, tant’è che il referto parla di vie respiratorie ostruite da “materiale ematico e probabili ingesti”, cioè cibo.

Se, viceversa, si appurasse che queste ferite sono state effettivamente provocate dalle manovre di soccorso, c’è da chiedersi quale perizia e quanta energia siano state messe in pratica, visto che il carabiniere aveva un fisico robusto e allenato. Tra l’altro, poco tempo prima Eugenio si era sottoposto a un controllo medico il cui responso era stato positivo anche nella parte di accertamento cardiaco.

2) I SOCCORSI

Secondo la ricostruzione ufficiale, Eugenio Fasano si sarebbe sentito male al termine della partita (intorno alle 15), nello spogliatoio dove ci si cambia e si fa la doccia. Siamo – lo ricordiamo – al Circolo Antico tiro a volo di via Vajna, nel quartiere Parioli.  A quel punto i colleghi che erano con lui, anziché chiamare un’ambulanza o caricarlo su un’auto per dirigersi all’ospedale più vicino, chiamano il Comando generale da dove arriva un medico dell’Arma, che presta i primi soccorsi. Qui evidentemente c’è uno spazio temporale che le inchieste dovranno ricostruire, perché solo successivamente (15,35) viene richiesto l’intervento del 118. Che arriva sul posto con due ambulanze: una senza medico a bordo alle 15,44, e l’altra con medico a bordo alle 15,46.

Le ambulanze ripartono entrambe dal Circolo alle 16,22 e arrivano al Policlinico Umberto I alla stessa ora: le 16,30. E secondo i referti portano lo stesso paziente: “paziente ignoto 14801”. Un aspetto (lo abbiamo già scritto in questi giorni) che forse può essere secondario, ma che le inchieste dovranno certamente chiarire. Anche perché il risultato finale di tutto questo è che il maresciallo arriva in ospedale un’ora e mezzo dopo il presunto malore e in uno stato ormai irrecuperabile. Tant’è che morirà due giorni dopo.

3) DOPO LA MORTE

La sensazione dei familiari di Fasano, è che subito dopo il fatto siano mancati alcuni di quei passaggi che in casi di questo tipo appaiono del tutto normali. La famiglia non è mai riuscita a sapere chi fossero i compagni di calcetto di Eugenio, tranne l’ufficiale che tradizionalmente organizzava le partite. Si parla quindi di almeno altri otto giocatori presenti al fatto che, raccontando e spiegando che cos’era avvenuto, avrebbero potuto chiarire i fatti e magari evitato seguiti giudiziari. Adesso è probabile che dovranno farlo davanti ai magistrati (se già non l’hanno fatto) e le loro versioni saranno parte integrante dell’istruttoria.

La famiglia si chiede inoltre perché non sia stata disposta l’autopsia sul corpo del congiunto. Richiesta che era stata rivolta immediatamente dopo il decesso ai medici del Policlinico. L’esame autoptico avrebbe potuto sciogliere ogni dubbio sulle cause, spiegando le lesioni e le gravi ferite interne.

Infine, pur avendo apprezzato il conferimento della Medaglia d’oro giunta dal comando generale dell’Arma appena 15 giorni dopo il fatto, la famiglia avrebbe preferito che – viste le circostanze in cui era avvenuto il fatto – prima fosse fatta chiarezza e poi si fosse proceduto all’onorificenza.

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