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Chi salverà la Capitale? Dal primo turno poche risposte
di Luigi CarlettiLa storia insegna che nelle varie epoche, dopo il crollo dell’Impero, i romani dovettero subire feroci invasioni e durissime dominazioni, ma che in molti casi non fecero molto per resistere e opporsi ai nemici: indolenza, egoismi e ignoranza li spinsero spesso a sottovalutare il pericolo, ricercando talvolta pericolose forme di alleanza e vassallaggio destinate a risolversi inevitabilmente nel disastro. Il romano medio è, storicamente, fatto così: mentre cura i propri affari (di qualsiasi tipo essi siano) pensa e spera che qualcuno intanto provvederà ai destini della collettività. Re e imperatori, papi e nobili casate hanno lasciato una traccia nel dna che non si cancella facilmente. E in fondo, quelli che il 10 giugno del 1940 riempivano piazza Venezia sotto il balcone del duce che annunciava l’entrata in guerra, non venivano tutti da fuori e non erano tutti lì controvoglia: erano romani e fascisti entusiasti, convinti che l’uomo forte li avrebbe portati lontano. La sveglia collettiva suonò tre anni dopo, il 19 luglio del 1943, con il tragico bombardamento di San Lorenzo: solo allora si comprese a che cosa aveva portato il fascismo, ed ecco che l’eroica minoranza che fino ad allora aveva combattuto il regime divenne improvvisamente maggioranza. Ma a che prezzo, verrebbe da dire.
Molti anni sono passati da allora, e il governo di Roma ha sempre alternato fasi piuttosto grigie a brevi periodi di buona amministrazione, che non a caso vengono ricordati con toni da beatificazione per i sindaci che ne furono protagonisti. La legislatura che si è appena chiusa, con la giunta guidata da Virginia Raggi, è stata un pianto, ma l’ex sindaca ha anche le sue ragioni nel sostenere che prima di lei Roma aveva conosciuto giorni assai peggiori. Vero. Purtroppo però è un’evidenza che non assolve né lei né i suoi collaboratori. Il fatto è che la città oggi è in ginocchio e non regge il confronto con nessuna moderna capitale occidentale: intendiamoci, il Colosseo c’è ancora e il derby Roma-Lazio pure, ma se si aprono gli occhietti e si prova a guardare la realtà, si vede una città che ha letteralmente buttato via anni preziosi e, a parte la sua “grande bellezza”, non sta facendo molto per attrarre né gli investitori internazionali né i giovani talenti globetrotter.
Questa è la situazione, se la si prova ad analizzare con un minimo di freddezza e di lucidità. Eppure, a queste elezioni, ha votato meno della metà degli aventi diritto, certificando un disimpegno del romano medio che da un lato può anche essere riferito alla sfiducia e alla mancanza di candidati trascinatori, ma dall’altro ci riporta direttamente all’antropologia e alla storia romana. L’impressione è che questo primo turno si collochi di diritto nell’atavica e irrisolvibile difficoltà a volersi bene in quanto comunità e non a vedersi come coacervo di fazioni, correnti, tribù e bande. I risultati del primo turno ci dicono che si torna all’antico, con il confronto tra centrodestra e centrosinistra, due schieramenti che in gran parte ripropongono non solo uomini e donne delle passate avventure politiche, ma anche le stesse dinamiche. Il problema non sta nelle capacità di Gualtieri o di Michetti, persone sicuramente animate dai migliori propositi, ma nella mancanza di un progetto per un vero e proprio “rinascimento”, e che quindi non sia solo risolvere le emergenze. Rifiuti, trasporti, sanità e assistenza territoriale, infrastrutture degne di una capitale: sono certamente priorità. Ma poi che si fa, si ricomincia con i conflitti tra il Campidoglio e i Municipi? Si ritorna alle guerricciole tra sindaco e minisindaci? Si riprende l’eterno braccio di ferro sui piani di sviluppo che comprendono gli amici e tagliano fuori tutti gli altri? Non è così che si salva Roma. Perché di questo stiamo parlando: salvare la Capitale.