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Michele Mezza: “Pandemia, dobbiamo ottenere i dati digitali dai colossi del web”

di Daniele Magrini

Se si fossero usati i dati che viaggiano sulla Rete tante vite sarebbero state salvate. Adesso, per difendersi dal Covid-19 e dalle prossime pandemie, è necessario un Welfare della sicurezza basato sui Big Data”. È la riflessione di Michele Mezza, docente di Epidemiologia Sociale, Algoritmi e Big Data all’Università Federico II di Napoli. Giornalista, per 40 anni in Rai, autore del progetto di Rainews24, Mezza ha scritto numerosi saggi, tra cui due libri usciti durante la pandemia scritti insieme al virologo Andrea Crisanti, “Il contagio dell’algoritmo” e “Caccia al virus”, editi da Donzelli.

La locandina dell’iniziativa

In qualità di esperto, Mezza è stato tra i protagonisti dell’incontro della rassegna Corto Circuito, organizzata da Romah24.com alla Libreria Eli di via Somalia, sul tema: “Tutto quello che ci ha insegnato la pandemia. Siamo migliori dell’era pre-Covid?”, oltre a Michele Mezza, l’appuntamento ha visto la presenza di altri due autori, Marco Mottolese che ha scritto “Mi hanno inoculato il vaccino sbagliato” (Castelvecchi Editore) e Luigi Carletti, direttore di Romah24 e autore di “My personal Covid (Typimedia Editore).

Michele Mezza

Mezza, nei suoi libri offre un’ampia panoramica degli errori commessi durante dalla pandemia dal punto di vista della gestione digitale. Per capire la lezione, bisogna comprendere quali sono stati gli errori commessi. Li può riassumere?
“C’è stata indubbiamente una cattiva gestione digitale della pandemia. Si è manifestata in modo evidente una completa impreparazione, peraltro oggi ammessa a tutti i livelli nazionali e internazionali. C’è stata una grande difficoltà a inquadrare i fenomeni e a predisporre modelli organizzativi. Siamo stati troppo tempo immersi nella convinzione che il Covid-19 fosse un problema cinese, semmai con qualche estensione in Occidente. E invece abbiamo assistito ad un vero e proprio tsunami europeo. Eppure, qualcosa si poteva intuire subito: già a metà febbraio 2020 si potevano applicare le metodologie di tracciamento che il professor Andrea Crisanti aveva attuato in Veneto. A partire da questo gap iniziale, gli errori più evidenti sono stati: la carenza dei sistemi di tracciamento sul territorio; la mancanza di una strategia unitaria, con le Regioni a fare a gara nell’allestire autonome modalità di tracciamento; la mancanza di un’anagrafe digitale dei vaccinati. Pensiamo al fallimento di Immuni, l’App muta. Invece, l’uso adeguato delle opportunità digitali avrebbe consentito di costruire un welfare, un sistema sociale in grado di trasformare la sicurezza in protezione personale e individuale”.

Senza i dati della Rete si muore e si continuerà a morire di Covid-19, dice il professor Crisanti. Lei è d’accordo?
“È evidente che è così. C’era chi aveva i dati: Google e Facebook sapevano a dicembre quello che stava accadendo e hanno potuto percepire che si trattava di qualcosa di mondiale, di globale. Ma tutto doveva divenire patrimonio di conoscenza della epidemiologia pubblica invece che rimanere in mano ai Big Data privati. Gli Stati non hanno avuto l’accortezza di chiederli questi dati ma non lo hanno fatto. La Rete sapeva quello che stava succedendo, ma nessuno l’ha chiesto”.

Quali erano gli strumenti che gli Stati dovevano andare a chiedere alle grandi web companies?
“Nel mezzo alla pandemia Google è arrivato a diffondere un mobility report in cui scannerizza dettagliatamente i movimenti di qualsiasi essere umano sul pianeta, comunque si sposti: a piedi, con un mezzo pubblico, o privato, urbano o extra urbano, riuscendo a dedurne anche destinazione e origine. Una cartografia perfetta che avrebbe permesso ad ogni autorità sanitaria di ricavare quelle mappe per l’immunizzazione che l’app Immuni non è riuscita nemmeno a evocare. Ne ho scritto durante la pandemia: questi dati, ha annunciato Google, sono stati “anonimizzati”. Dal ché si deduce che in origine non lo erano, e dunque Google, tramite la convergenza dei suoi sistemi di telefonia mobile (il suo sistema operativo Android controlla il 78 percento del mercato planetaria) più altre soluzioni come Gmail o Google Maps, è in grado di geo-referenziare singolarmente o in gruppo ogni utente. Esattamente quello che era ritenuto necessario dagli epidemiologi come Crisanti che affermano che senza questi dati si muore”.

Da oggi e per il futuro quali gli insegnamenti che emergono dalla terribile lezione della pandemia e da mettere a frutto per una efficace gestione digitale delle future pandemie?
“Intanto non far finta di non accorgersi delle disuguaglianze che il virus ha accentuato e delle conseguenti fratture sociali. Nel merito della gestione digitale non vedo alcun miglioramento su anagrafe, app, sistema di tracciamento: sono tutte cose che dopo tre anni dovevano pretendere di avere e non le abbiamo. Il digitale ci dà grandi vantaggi ma non è neutro: ci impone organizzazioni diverse da prima. E invece c’è chi resiste per mantenere attardate posizioni di leadership. Il problema di fondo è avere i dati da chi ce li ha, cioè le grandi web companies. Non possiamo rimanere a mani nude in questa guerra dei dati: uno Stato deve essere padrone dei propri numeri, delle informazioni che determinano le decisioni. Al momento non è così”.

Si tratta di processi certamente difficili. La guerra scatenata da Putin renderà ancora più difficile il confronto fra Stati e colossi del web?
“Le grandi piattaforme stanno usando la guerra per lavarsi la faccia. Il loro è una specie di maquillage sociale: Elon Musk che sostiene la resistenza ucraina, Microsoft che aiuta a decrittare i codici russi, Facebook che mette in atto misure contro la propaganda russa. Ma non bisogna perdere di vista il problema. Proprio la guerra tornata in Europa con l’aggressione all’Ucraina, dimostra che tutto ormai si fa in e con la Rete. A cominciare dal conflitto in corso: pensiamo solo alla georeferenziazione dei mezzi militari, al controllo satellitare degli spostamenti delle truppe sul campo. Le stesse cose, con i medesimi strumenti si potevano fare nella guerra al virus. E invece tutto è stato tralasciato”.

Nella seconda parte del titolo del nostro appuntamento di Corto Circuito, abbiamo inserito questa domanda: siamo migliori dell’era pre-Covid? Lei ci può anticipare la sua opinione?
“Visto che è scoppiata una guerra, certamente non siamo migliori in senso generale. Nel piano specifico del nostro rapporto con la pandemia, riteniamo di averla alle spalle. Cè voglia di dimenticarla, ma rimuoverla è la cosa peggiore. Il virus non è morto; questa retorica del raffreddore è sintomo dell’arroganza di non voler imparare la lezione, nonostante il dolore in cui versano milioni di famiglie. Dobbiamo imparare a vivere dentro il contagio. Non far finta che non ci sia. Ma non siamo migliori neppure sul piano della consapevolezza digitale, né dell’utilizzo pianificato delle risorse della Rete. L’Europa sta facendo cose importanti come il Digital Markets Act, a cominciare dalla profilazione degli algoritmi. La partita è più aperta di prima, ma pochi giocatori sono in grado di incidere sul risultato”.

 

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