13 Aprile 2023 - 12:41 . Cultura

La storia: Enrico Mancini, un partigiano agli Alberghi

Enrico e sua moglie Argia in visita a Firenze, primi anni Quaranta. Foto: Famiglia Smeriglio, pubblicata in  "Come eravamo. Garbatella 1835-1960"
Enrico e sua moglie Argia in visita a Firenze, primi anni Quaranta. Foto: Famiglia Smeriglio, pubblicata in "Come eravamo. Garbatella 1835-1960"

La Garbatella è uno di quei quartieri di Roma le cui vicende si intrecciano con la Grande Storia ed entrano a far parte di essa. Personaggi, luoghi e date diventano dei simboli che assumono valore universale. È il caso di Enrico Mancini, falegname partigiano vissuto alla Garbatella e fucilato alle Fosse Ardeatine il 24 marzo 1944. A raccontare la sua storia è il pronipote Iacopo Smeriglio, giornalista, tra i fondatori della sezione Anpi-Garbatella Ostiense. Pubblichiamo di seguito il testo da lui scritto e contenuto nel volume di Typimedia Editore “Come Eravamo. Garbatella 1835-1960” a cura di Antonio Tiso, un grande album di foto in bianco e nero che raccontano le origini di un quartiere straordinario.

 

di Iacopo Smeriglio

A mia nonna Maria Capece 

e a nostro zio Riccardo Mancini

Quando i nazisti lo arrestarono, Enrico Mancini abitava con la sua famiglia al lotto 43, agli Alberghi. La sua vita si intreccia con le prime vicende della Garbatella, attraversando gli anni del fascismo e poi della guerra mondiale. Tra i lotti del quartiere sono cresciuti i suoi figli e, poi, i suoi nipoti e le successive generazioni. Fra loro c’è mio papà, Massimiliano Smeriglio, e ci sono anche io. 

Enrico Mancini è stato artigiano e commerciante, padre e marito, soldato della Grande guerra e antifascista durante il regime, un partigiano quando venne il secondo conflitto mondiale e, infine, martire quando i nazisti occuparono la città di Roma. 

Non era, però, nato alla Garbatella che, quando lui veniva al mondo, era ancora lontana dall’essere costruita. Era il 13 ottobre 1896 e a Ronciglione, un piccolo paese della provincia di Viterbo, Luisa Pizzuti e Francesco Mancini davano alla luce un bambino di nome Enrico. Già negli anni dell’infanzia, con i genitori, si trasferì a Roma, dove venne preso a bottega da alcuni falegnami e imparò a maneggiare il legno. Mentre per l’Europa si alzavano i venti del primo conflitto mondiale, Enrico Mancini iniziava a praticare il mestiere di ebanista presso alcune botteghe tra il centro della città e il quartiere di Testaccio. 

Enrico Mancini con la figlia Elettra in occasione della sua cresima, 1942 circa. Foto: Famiglia Smeriglio, pubblicata in “Come eravamo. Garbatella 1835-1960”

Arrivò il 1915 e l’ingresso dell’Italia in guerra. Così, a diciannove anni si arruolò nell’esercito regio. In battaglia aveva dimostrato coraggio e determinazione: tornato a Roma, qualche anno dopo il suo rientro, nel 1921, gli fu conferita una Medaglia al Valor Militare. 

Il ritorno alla vita dopo il conflitto diede il via a un periodo frenetico. Aveva ripreso a praticare il mestiere di ebanista, dimostrando spirito di iniziativa e talento che lo portarono, presto, ad aprire i battenti di una bottega tutta sua. È a quegli anni che risale l’incontro con Argia Morgia, una giovane insegnante di scuola elementare che abitava nella zona di via Po’, a ridosso di Villa Borghese. 

Era arrivato il matrimonio e l’attività commerciale andava espandendosi. 

Nel corso degli anni ’20, Enrico Mancini gestiva varie botteghe e alcuni magazzini tra il centro della città e la zona di Ostiense e Testaccio, dove abitava. 

Fu l’avvento del fascismo in Italia a segnare un cambiamento profondo. Le botteghe e le attività commerciali divennero presto un bersaglio facile per i militi fascisti. Enrico Mancini era, infatti, un uomo di ideali democratici, improntati alla giustizia sociale e all’eguaglianza e mai nascose la sua convinta avversione per il regime. Fu tra i primi ad aderire al Partito d’Azione.

Le botteghe venivano distrutte di frequente, poi le squadracce iniziarono con il fuoco. Il legno brucia bene. In quegli anni difficili, Enrico Mancini e Argia Morgia misero al mondo quattro figli maschi e due figlie femmine: Alberto, Bruno, Adolfo, Mirella, Elettra e Riccardo.

La Garbatella cominciava a vivere al di là dell’Ostiense, poco lontano dalla Piramide.

Al progetto iniziale dei lotti della Città Giardino, il fascismo aveva aggiunto gli alberghi suburbani. Erano – e sono tutt’ora – i lotti 41, 42, 43 e 44, chiamati alberghi perché lì sarebbero dovute transitare temporaneamente le famiglie degli sfollati degli sventramenti del centro storico. Decine di antifascisti vi furono portati a vivere nella seconda metà degli anni ’30. Ogni albergo, infatti, rispondeva a vigilanti in camicia nera che si occupavano della riscossione delle pigioni e della guardiania. 

È al lotto 43 che Enrico Mancini e la sua numerosa famiglia vennero trasferiti dai fascisti. 

Fu, però, la Battaglia di Porta San Paolo a cambiare ogni cosa. 

Con gli alti ranghi dell’esercito italiano in fuga insieme al re sulla Tiburtina, i nazisti incontrarono la prima resistenza quando erano già entrati in città. 

A Porta San Paolo dalla mattina del 10 settembre, sull’Ostiense, le divisioni dell’esercito e le formazioni clandestine antifasciste alzarono le barricate. 

Enrico Mancini aveva 46 anni e sei figli quando l’esercito nazista, in armi, marciava sul centro di Roma a pochi passi dalla Garbatella. Le truppe rimaste dell’esercito italiano e i gruppi partigiani lasciarono sull’asfalto, nell’estremo tentativo di difesa della città, più di mille e cento caduti. 

Enrico e sua moglie Argia in visita a Firenze, primi anni Quaranta. Foto: Famiglia Smeriglio, pubblicata in “Come eravamo. Garbatella 1835-1960”

Nei mesi che seguirono, le sue attività clandestine si intensificarono e già sul finire del 1943 fu sottoposto a un primo arresto. 

La figlia Elettra, nonna di mio papà, raccontava come spesso lei e i fratelli si dedicassero a diffondere materiale di propaganda antifascista per le strade della Garbatella. In casa e nei magazzini, il papà Enrico nascondeva e muoveva materiali, soldi e persone in clandestinità. Un’attività intensa, di dirigenza e coordinamento, che non sfuggì alla polizia segreta fascista. 

Il 7 marzo 1944 fecero irruzione nel suo ufficio. L’arresto di Enrico Mancini avvenne sotto lo sguardo impotente della figlia Elettra. 

Fu trasportato nelle carceri della Pensione Oltremare. Nei tredici giorni che trascorse nelle mani della banda del fascista Pietro Koch, dovette resistere a terribili, quanto inutili, torture. Non riuscirono da lui a ottenere alcuna informazione. Enrico Mancini venne trasferito, con le costole rotte e molte contusioni, a Regina Coeli il 20 marzo 1944. 

La città fremeva e non c’era giorno che le truppe tedesche non fossero attaccate o sabotate dai gruppi partigiani. Il 23 marzo 1944 era tardo pomeriggio quando in via Rasella, a pochi passi da piazza Barberini, una grande esplosione colpì duramente un battaglione nazista. Trentatré soldati tedeschi erano stati uccisi e moltissimi erano i feriti. 

Si dice che la notizia arrivò subito a Hitler. Cieco di rabbia ordinò la rappresaglia. 

Per tutta la notte del 23 marzo ci fu un gran via vai di carri per le strade di Roma. Venivano dal carcere e andavano verso fuori, lungo la via Ardeatina. A decine, gli uomini vennero caricati dalle prigioni fasciste e da Regina Coeli. Dieci italiani per ogni tedesco ucciso, poi i nazisti sbagliarono di conto e ne presero qualcuno in più. Erano comunisti, azionisti, socialisti, monarchici. C’erano ebrei e cattolici, civili e combattenti, militari, preti. 

Nelle grotte di tufo che circondavano la via Ardeatina, dove i primi cristiani avevano scavato le loro catacombe, in 335 furono fucilati. I corpi, ammassati uno sopra l’altro senza giustizia né dignità, vennero fatti esplodere. Era il 24 marzo 1944.

Enrico Mancini era tra quegli uomini. Il corpo venne riconosciuto solo mesi dopo. A permettere di identificarlo, martoriato dalle esplosioni, fu il pettinino con cui era solito sistemare i capelli.

Il ministero della Difesa riporta in un bollettino il grado di Mancini al momento della sua morte, 1948. Foto: Famiglia Smeriglio, pubblicata in “Come eravamo. Garbatella 1835-1960”

Il volto ed il nome di Enrico Mancini sono oggi sui muri e per le strade della Garbatella. Una targa lo ricorda al lotto 43, una pietra d’inciampo è stata apposta in via Percoto. In piazza Bartolomeo Romano il suo ritratto rappresenta e ricorda tutti i 335 delle Fosse Ardeatine. 

Le Fosse Ardeatine sono, oggi, memoria collettiva e storia dei nostri quartieri. 

Memoria popolare, di sangue, portata fin dentro le istituzioni locali, che l’hanno fatta propria rendendola patrimonio comune.

Qualche generazione è passata da quando Enrico Mancini è arrivato alla Garbatella. 

Agli alberghi non ci abitiamo più. Questa storia, però, la portiamo dentro, ognuno a modo suo. In una famiglia numerosa, qualcuno ha continuato a praticare l’impegno politico e civile come scelta di vita. L’antifascismo lo abbiamo cullato tra i racconti e i ricordi di chi, come la mia bisnonna Elettra o suo fratello Riccardo, figli di Enrico Mancini, ha dedicato amore e rabbia nel lasciare che piccoli frammenti di guerra ci graffiassero nel profondo.

E così, noi, non abbiamo dimenticato.

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