Roma, 23 Dicembre 2024 - 13:47

Villa Ada racconta

Silvia Arbicone

Custode del nostro tesoro verde

5 Gennaio 2020

Villa Ada e quegli abeti natalizi così speciali che vengono dai Balcani

Nell’immaginario dell’albero di Natale, in Italia il pensiero corre subito al peccio (Picea abies) noto come abete rosso, appartenente alla famiglia Pinacea e ampiamente diffuso sulle nostre Alpi. Nell’Europa Centrale e nei Paesi nordici, invece, è più comune l’uso di abeti (Abies alba o Abies nordmanniana). Pochi sanno però che a Villa Ada possiamo trovarne una specie davvero particolare: scendendo lungo il pratone a destra prima del Casale della Finanziera, infatti, si possono ammirare due maestosi abeti greci (Abies cephalonica, London 1838).

Abete greco

L’abete greco proviene dalle regioni occidentali della penisola balcanica e può raggiungere un’altezza di 25 metri (il nome deriva dal latino abire, andarsene, perché è un albero alto e si allontana dalla terra). Si differenzia dall’abete bianco – che ha gli aghi appiattiti disposti a raggio intorno ai rametti e le pigne (strobili) pendule – e dall’abete rosso (Picea abies) che è il più diffuso. Rispetto a queste due specie, infatti, presenta una folta chioma a forma conica, ha corteccia da liscia grigia a bruna e i suoi aghi sono a forma di pettine. Con una particolarità: nella parte inferiore hanno due striature bianche argentate separate da una nervatura verde.

Gli aghi dell’abete greco

I coni maschili, prima rossi e poi color ocra, spargono il polline in aprile. I coni femminili di colore rosso, che sono sulla stessa pianta (monoica), si trasformano in pigne rivolte verso l’alto.

Le pigne dell’abete greco

L’abete greco è un albero utilizzato per motivi ornamentali, per rimboschimento e per produrre mobili e carta. Ha proprietà balsamiche, espettoranti e antisettiche.

Nel solstizio d’inverno – che quest’anno è stato lo scorso 22 dicembre – l’abete sempreverde viene festeggiato come simbolo di rinascita della vita ed espressione del dualismo morte-rinascita, perchè rappresenta la speranza nel ritorno del sole. È il momento in cui l’inclinazione dell’asse di rotazione terrestre,  importante per l’esistenza delle stagioni, porta la notte più lunga e il giorno di luce più corto, che poi riprende gradualmente ad aumentare. Nel  calendario celtico il solstizio di inverno simboleggiava così la morte del vecchio sole e la nascita del fanciullo divino: il nuovo sole.

In Iran, secondo l’antica cultura persiana, in questo periodo nasceva il dio Mitra, il dio del sole. Nei Saturnali,  festività romane di epoca arcaica, si onorava Saturno, protettore della semina e dio dell’età dell’oro, dove c’era l’uguaglianza e cibo per tutti. Nelle feste si ribaltavano temporaneamente i ruoli e le gerarchie sociali, agli schiavi veniva concessa la libertà e la parità e ci si mascherava come a carnevale, venivano scambiati doni simbolici (dette strenne dalla dea Strenua del solstizio d’inverno): candele, noci, datteri e miele.

In Estonia a Tallin nel 1441 intorno all’abete nella piazza del Municipio giovani scapoli, uomini e donne, ballavano insieme alla ricerca dell’anima gemella. Nel Medioevo l’evangelizzazione assimilò tradizioni e culti pagani (sincretismo), ma nei paesi latini le feste ricomparvero solo nel 1840 come simbolo della nascita di Cristo, come albero della vita. In Grecia questo abete era dedicato alla dea della luna e della vita selvatica, Artemide, protettrice delle donne.

Come narra Ovidio nelle Metamorfosi – qui di seguito nella traduzione di Vittorio Sermonti – la ninfa Cenide (kainis “la nuova” in greco, forse perché impersonava il plenilunio) “meraviglia della Tessaglia, talmente era bella e famosa che turbe di pretendenti dei dintorni sognavano invano di accompagnarsi con lei… Cenide non intendeva sposare nessuno; e un bel giorno che su una spiaggia appartata passeggiava, a quanto raccontano, il dio delle acque la prese”.

Poi Nettuno disse: “Desideri qualcosa? Non farti problemi: scegli tutto quel che ti pare”. E Cenide rispose: “L’oltraggio pretende un risarcimento assoluto: non voglio patirlo mai più; ti chiedo solo di smettere di essere donna”. Il dio esaudì il suo voto, trasformandola nel re dei Lapiti, con il nome di Ceneo, accordandogli anche di essere invulnerabile e immortale al ferro. Ceneo pose la sua lancia di abete al centro del mercato della città e pretese che tutti l’adorassero come una divinità. Ma Giove si infuriò e inviò i Centauri per uccidere Ceneo, che però li distrusse quasi tutti. Uno dei centauri superstiti, Latreo, le disse: “E dovrei sopportare anche te, Cenide? Per me sarai sempre una donna, scusami Cenide. Possibile mai non ricordi com’eri quando sei nata? A che prezzo, in compenso di che ti sono state assegnate quelle finte fattezze di maschio? Pensa com’eri al principio e che ti è capitato: ma dai torna al fuso, torna al cestino con la lana e lavora di pollice! La guerra lasciala ai maschi!”.

I pochi centauri sopravvissuti uccisero così Ceneo e lo seppellirono sotto una catasta di abeti. “Rovesciamogli addosso macigni, tronchi d’albero, intere montagne, soffochiamogli di foreste quell’ostinatissima vita”, dissero. Ma un uccello dalle ali fulve uscì dalla catasta. Si disse che era l’anima di Ceneo. Dopo i funerali si scoprì che il corpo era ritornato quello di una donna. È il più antico racconto di un cambiamento di sesso.

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