Il paese, lontano 130 chilometri, è sempre stato il borgo del cuore per molti degli abitanti del quartiere. Quel 24 agosto 2016 la Capitale si è svegliata sconvolta dal dolore
Oltre le palazzine in stile liberty di piazza Caprera, oltre le iscrizioni in latino dei condomini di via Chiana, oltre il barocco dei monumentali edifici di piazza Mincio. Il quartiere ha sempre guardato oltre. Oltre, laggiù, alla fine di un orizzonte lungo centotrenta chilometri, c’era un borgo che noi del Trieste-Salario chiamavamo casa. E poco importava che fosse la seconda. Era il nostro buen retiro, era il luogo prediletto dove far riposare i nostri pensieri, dove sedare le nostre preoccupazioni. Amatrice era questo, per noi del Trieste-Salario.
Il paesello, il posto del cuore, il rifugio dell’anima. Potremmo continuare per ore e ore con le definizioni, le perifrasi, le metafore, perché c’è un ventaglio infinito di soluzioni letterarie utili a sintetizzare quanto amore ci fosse tra Roma e questa cittadina che il 24 agosto di due anni fa un sisma ha quasi cancellato dalla faccia della terra.
Amatrice e le sue 69 frazioni sono sempre state una cosa sola con la Capitale. Fin dal ‘700, quando dalle pendici dei monti della Laga i pastori partivano per condurre le loro greggi a Roma. E fu così, grazie alla transumanza, che la metropoli scoprì cosa fosse la gricia, l’amatriciana senza pomodoro: pasta, guanciale e pecorino. Una ricetta povera, essenziale come la vita umile di queste genti, eppure così ricca, appetitosa, che sulle tavole delle trattorie romane rievocava, e rievoca ancora, i profumi di querce e ginestre.
Amatrice non c’è più. Lo disse il suo sindaco Sergio Pirozzi in diretta tv quando la terra ancora scuoteva le tenebre di quell’alba dannata. Amatrice non c’è più e non ci sarà più quell’Amatrice lì. Due anni, 24 agosto, giorno del lutto e del silenzio, il quartiere piange e ricorda. Il quartiere, il nostro Trieste-Salario, qui dove noi lasciavamo le scuole chiuse per rifugiarci in quella cosa che per noi era casa, erano i nonni, erano sere d’estate nelle piazzette delle ville sulla conca amatriciana, reduci dalle passeggiate in bicicletta e dalle partite di pallone a Villa San Lorenzo, a Configno o in qualsiasi altro spiazzo d’erba e nuvole.
Amatrice ci manca.
Manca a chiunque avesse camminato almeno una volta su corso Umberto, a chiunque si fosse fermato un istante a veder affievolirsi la luce del sole sul granito delle sue montagne. Amatrice manca a un quartiere che sotto quelle macerie ha lasciato delle vite e lo strazio del ricordo. Mantenendo però accesa la speranza che un giorno, un giorno lontano, prima o poi, i nostri figli o i nostri nipoti potranno tornare a correre sotto le nostre distese di cielo. Quello stesso cielo che una notte d’agosto del 2016 ha accolto a sé 239 palloncini bianchi.