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Natale, tutti a tavola con i piatti delle tradizioni regionali

di Samantha De Martin

Sedotto dai sapori della Toscana, Federico Fellini era cliente fisso in uno dei più antichi ristoranti regionali di Prati. Sempre nel quartiere, Fred Bongusto ha avuto modo di apprezzare i sapori del suo Molise, mentre Angelo Colapicchioni, con la sua segretissima ricetta del Pangiall’Oro, che affonderebbe le radici addirittura nel De Re Coquinaria di Marco Gavio Apicio, ha ispirato le pagine di diversi scrittori, da Alberto Bevilacqua a Roberto Saviano, oltre a esportare un pezzetto di romanità nel mondo.

Aneddoti a parte, che denotano però come la cucina regionale sia abbastanza radicata (e apprezzata) nel nostro quartiere, chi avesse voglia di sperimentarne la varietà non ha che l’imbarazzo della scelta.

Perché dal “baccalà arracanato” tipico del Molise ai colurgiones sardi, le festività natalizie rinnovano a Prati saperi di famiglia e sapori regionali che stuzzicano il palato con i profumi di una tradizione ancora salda.

Ci sono piatti che richiedono tempo e che sarebbe difficile preparare tutti i giorni. E invece a Natale anche Prati si veste del calore del paese aspettando la festa.

Perché per chi resta nel quartiere, ma anche per chi viene in visita fugace, è forse questo il periodo più romantico per apprezzare lentamente, con le foglie “scrocchiarelle” sotto i piedi, il calore delle luminarie, il mercatino di Natale di piazza Mazzini, il passeggio lungo via Cola di Rienzo, una Natività, quest’anno tutta di sabbia, allestita nella vicina piazza San Pietro.

Un piatto regionale può essere, per i romani, un modo alternativo di festeggiare il pranzo di Natale o il Cenone; per chi non è di Roma, ma in città ci vive, e per i turisti, un’occasione per respirare un po’ di aria di casa o l’opportunità di compiere un “grand tour” gastronomico alternativo tra le specialità natalizie del bel paese senza muoversi dalla capitale.

Abbiamo fatto un giro tra alcuni ristoranti regionali del quartiere alla ricerca delle ricette più tipiche da proporvi per un cenone tra amici o una cena “take away”.

Da Palermo a Prati ecco gli anelletti al forno

Chi lo avesse assaggiato alla tavola di un siciliano e ne sentisse nostalgia può fare un salto all’osteria di Enza e Felice Un angolo di Sicilia, in via Dardanelli 19. A suggerirci i segreti del timballo di anelletti al forno, davanti al bancone a forma di carretto siciliano, è la stessa Enza. Va a memoria, Enza, mimando con i gesti la preparazione.

È una ricetta antica quella degli anelletti, nota dai tempi della dominazione araba. La forma, piccola e tondeggiante, di questo tipo di pasta di grano duro richiamerebbe i monili delle donne arabe.

Si parte da un buon ragù, per il quale bastano 400 grammi di carne di manzo macinata, cui si aggiungono, una volta pronto, 3 uova sode, una mozzarella da 300 grammi (anche se qualcuno utilizza la “tuma”, formaggio tipico siciliano), 150 grammi di prosciutto cotto, 100 di Parmigiano, una melanzana a tocchetti e fritta.

Dopo aver scolato la pasta al dente la si aggiunge al sugo e agli altri ingredienti. Si amalgama bene il tutto, si versa il composto in una teglia con un’abbondante spolverata di Parmigiano prima di metterlo in forno per 15 minuti a 180 gradi e il piatto è pronto.

E qui interviene Felice: per essere gustati a pieno gli anelletti andrebbero abbinati a un bicchiere di Nero d’Avola.

Natale “in Salento” con le “pittule”

A Prati basta spostarsi di pochi metri per risalire lo stivale. Dai sapori della Sicilia si arriva a quelli del Salento, travolti dalla simpatia di Mauro, titolare dell’Hostaria Menamè di via Augusto Riboty, 20c. A detta degli amici, questa espressione tipicamente salentina (‘sbrigati, andiamo’) è un’esortazione che il titolare rivolgerebbe a se stesso.

“Te l’Immaculata la prima pittulata” (‘durante la festa dell’Immacolata per la prima volta si cucinano le pittule’) dice un proverbio salentino. Ma da Menamè le pittule si trovano per tutto il periodo natalizio.

Per preparare queste “pallottole” di pasta lievitata da friggere in abbondante olio di arachidi servono 500 grammi di farina, un cucchiaino d’olio, due pizzichi di sale, lievito di birra sciolto in 400 grammi di acqua rigorosamente fredda, in modo da ottenere un composto liquido.

Ma attenzione, per un buon risultato bisogna imitare la gestualità dello chef che suggerisce i movimenti giusti per ottenere un impasto perfetto. Ed eccolo Mauro, con la mano semichiusa a schiaffeggiare l’impasto spingendolo su è giù fino a quando non si formano le bolle d’aria, a chiuderlo poi nella pellicola e a metterlo a lievitare in frigo per almeno 24 ore. Una volta tirato fuori, ancora semi-gocciolante, si procede con la frittura. L’impasto viene stretto nella mano chiusa a pugno in modo da ottenere delle palline pronte per essere immerse in abbondante olio.

La Sardegna a Prati:i ravioli alla menta

Lasciamo temporaneamente il “continente” per fare un salto in Sardegna, scivolando dalla trafficata via Riboty verso il silenzio di via Rodi.

Mentre Ivana, titolare insieme a suo marito Bruno del ristorante Al Poetto, scorre la sua agenda con le ricette, un grande pesce avvolto nel cellophane “entra” nel ristorante.

La mano di Ivana si ferma sui culurgiones.

Li avrete sentiti chiamare in vari modi, ma la forma di questi agnolotti a base di patate e menta è inconfondibile. Quelli d’Ogliastra hanno anche ottenuto l’Igp.

Come spiega Ivana, questo piatto si prepara in occasione delle feste, visto che i passaggi per “cucire” e pizzicare la pasta con le dita richiedono tempo e molta pazienza.

Ed ecco il procedimento. Una volta lessate, le patate (bastano 400 grammi per quattro persone) vengono schiacciate e messe in una terrina con l’aggiunta di aglio, menta e prezzemolo tritati. Si impasta il tutto con l’aggiunta di 500 grammi di farina di semola rimacinata e si ricava una pasta compatta da stendere con il mattarello. Dopo aver ritagliato dei dischi rotondi di circa 10 centimetri, si riempiono con l’impasto di patate, menta, aglio e prezzemolo. E qui viene il difficile, visto che i piccoli ravioli ottenuti vanno sigillati a mano, uno per uno, con chiusura a “spighita”, ‘a spiga di cereale’, prima di essere cotti in abbondante acqua bollente per circa cinque minuti e ripassati nella salsa di pomodoro fresco.

In abbinamento Ivana consiglia un Cannonau o un Carignano.

Un salto in Molise: il Baccalà “arracanato”

Un libro regalatogli da Fred Bongusto ha fatto nascere in Franco, originario di Pietrabbondante, l’idea di chiamare il suo nuovo locale di via Candia 60, Piacere Molise.

Se ci passate durante le feste, oltre alla tipica “Cicerchiata”, trovate il baccalà “arracanato”, ‘gratinato’.

L’ingrediente base è il baccalà ammollato. Per quattro persone ne basta un chilo. Franco va a memoria scandendo bene i passaggi. Tolta la pelle occorre tagliare il baccalà a pezzetti di circa 3-4 centimetri che vengono infarinati, fritti in un litro di olio d’arachidi bollente e scolati. Sistemati in un “ruoto”, si aggiungono le patate, due etti di pomodori Pachino, una ventina di olive, qualche cappero e peperoncino a volontà. Il tutto va messo in forno e cotto per 30 minuti a 200 gradi.

 

Da Vanni si rinnova la tradizione romana

Da oltre 50 anni punto di riferimento del quartiere, Vanni tiene alta l’alabarda della tradizione romana, seppur reinterpretandola e rinnovandola anche in vista delle festività.

Nella storica sede di via Col di Lana 19, a pochi passi da piazza Mazzini e da Casa Balla in via Oslavia, lo chef Enrico Sardella sfodera un invitante raviolo alla carbonara.

Sembra di vederlo all’opera Enrico, mentre stende la sua pasta all’uovo per imbottirla con un impasto a base di uova, 100 grammi di ricotta di mucca, 50 grammi di pecorino, pepe e sale.

I ravioli vengono poi mantecati con pecorino e un condimento, precedentemente preparato, a base di guanciale tagliato a listarelle e fatto rosolare in padella.

Un altro piatto forte del Natale in casa Vanni è il cappone ripieno di carne di vitella e castagne, da accompagnare a un Tintilia del Molise.

La Toscana, tra crostini ai fegatini e “peposo”

Tra gli antipasti toscani della festa non possono mancare i crostini con i fegatini di pollo. Quelli preparati Dal Toscano avranno sicuramente deliziato anche Federico Fellini che con sua moglie Giulietta Masina in questo ristorante era di casa. In questo locale di via Germanico 58, orgoglio della famiglia Bruni, e dove, per la prima volta a Roma, si bevve il Chianti, i crostini sono una vera arte.

Per riproporre a casa la ricetta bastano 350 grammi di fegatini di pollo, 50 grammi di capperi, mezza tazza di brodo, mezzo bicchiere di vin santo, una cipolla rossa, tre acciughe sott’olio, sedano e olio. Il procedimento è semplice. Basta pulire i fegatini, saltarli in padella con olio, cipolla, sedano e carote e sfumarli con il vino. Dopo averli tagliati rigorosamente in punta di coltello, poneteli in una padella con i filetti di acciuga e i capperi tritati, aggiustando di pepe e sale.

La cottura deve avvenire a fuoco medio per una ventina di minuti, eventualmente bagnando con del brodo di pollo. L’ideale per il crostino è il pane raffermo abbrustolito in forno. Un piccolo segreto dello chef: bagnatene una parte nel fondo di cottura e, sull’altra, spalmatene il condimento ancora caldo.

Per assaggiare invece il Peposo, caratteristico piatto dell’Impruneta preparato anche durante le feste di Natale, basta risalire il quartiere e spostarsi dai Maledetti Toscani, in via Monte Pertica 45.

Lo chef ci accoglie con la sua ricetta, mentre i volti di toscani celebri vissuti tra il 1901 e il 2000 fanno capolino da una grande parete.

“Per questa sorta di spezzatino – spiega lo chef – occorre far stracuocere per due-tre ore il muscolo di manzo, insaporito con sale e abbondante pepe, con l’aggiunta di concentrato di pomodoro e vino Sangiovese. Trascorso il tempo si aggiunge mezzo litro di brodo vegetale e si completa la cottura. Qualcuno lo accompagna con il purè di patate o con la polenta”.

Ma quello che più affascina di questo piatto è la sua storia. Pare infatti che sia stato inventato dai fornacini dell’Impruneta (addetti alla cottura dei mattoni nelle fornaci) che usavano porre i pezzi di muscolo in un tegame di terracotta posizionato all’imboccatura del forno, in modo che potesse cuocere molto lentamente.

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