Trieste | La Storia

20 novembre 1943, 78 anni fa l’arresto di Leone Ginzburg

di Sara Fabrizi

La mattina del 20 novembre 1943, in via Basento 55, ci sono alcuni uomini che lavorano a un giornale. Si chiama “L’Italia libera”, è il giornale del Partito d’azione, un organo di stampa clandestino che propaganda valori democratici e antifascisti. Per un periodo brevissimo, a partire dal 25 luglio 1943, il giorno in cui Mussolini è stato arrestato e il fascismo è caduto, sono riusciti a stamparlo alla luce del sole, senza doversi nascondere.

Anche una sola parola può costare la vita
Ma è stato soltanto un momento. L’8 settembre, dopo l’annuncio dell’armistizio di Cassibile e la conseguente calata dei tedeschi su Roma, sono tornati nell’ombra. Costretti a nascondersi da un nemico che occupa completamente la città e non lascia spazio all’espressione del dissenso. Anche soltanto una parola può costare la vita.

Ebreo, apolide, conosce il carcere e il confino
A dirigere il giornale, dopo l’8 settembre, è stato chiamato un uomo che conosce bene questa realtà, fatta di carcere, botte, confino, privazione dei propri diritti civili. Sui suoi documenti c’è scritto che si chiama Leonida Gianturco. Lo stesso nome è riportato sulla tessera annonaria, che usa per procurarsi da vivere nella Roma della fame e dell’occupazione. Le iniziali sono vere, il nome no. È Leone Ginzburg, grande letterato, antifascista, ebreo, animatore della nascente casa editrice Einaudi. Ha aderito al movimento Giustizia e Libertà e, per questo, il 13 marzo 1934 lo arrestano e lo condannano a quattro anni di carcere. Ne sconta soltanto due, grazie a un’amnistia. Come ebreo, con la proclamazione delle leggi razziali nel 1938, perde la cittadinanza. Diventa un apolide, un uomo senza patria. Poi nel 1940, quando l’Italia entra in guerra, lo mandano al confino a Pizzoli, in Abruzzo, come “internato civile di guerra”. Una definizione per dire che Leone è uno straniero, un indesiderato oltre che un pericoloso antifascista da tenere sotto controllo. Ne esce soltanto tre anni dopo. Non appena viene a sapere della fine del regime parte: viene qui, a Roma, per riallacciare contatti e riprendere da dove si era fermato. Poi manda una lettera a Natalia, sua moglie, la grande scrittrice che nel 1963 pubblicherà “Lessico famigliare”. Le scrive di raggiungerlo a Roma oppure di andare a L’Aquila, dove c’è qualcuno che può offrirle un rifugio sicuro. Lo racconterà Natalia stessa in un’intervista rilasciata a Oriana Fallaci: «Venne l’8 settembre e Leone mi scrisse di andare all’Aquila dove c’era uno bravo che nascondeva gli ebrei, oppure di raggiungerlo a Roma».

Moglie e figli in viaggio sotto falso nome
E Natalia, con tre bambini al seguito (Carlo di 4 anni, Andrea di 3 e la piccola Alessandra, nata da pochi mesi), fa le valigie e viene a Roma, viaggiando su un camion di tedeschi ai quali racconta di essere una sfollata di Napoli e di non avere documenti. In città, la famiglia Ginzburg abita in un piccolo appartamento in viale delle Province. Leone e Natalia usano documenti e nomi falsi, dicono di essere fratello e sorella e i figli piccoli devono chiamare Leone zio. Soltanto così si può sperare di riuscire a mantenere la copertura.

L’irruzione della polizia nello scantinato
Leone “Leonida” esce spesso, viene qui, nello scantinato di via Basento, dove è stata allestita una tipografia. Ogni volta che lo vede andare via, Natalia non sa se tornerà e si sente completamente perduta. Un giorno Leone si ammala, deve mettersi a letto con la febbre alta. Una mattina, però, è di nuovo in piedi. Dice che deve andare. È il 20 novembre 1943.
Ma quando varca la soglia e mette il piede sull’ultimo gradino della scala che scende nello scantinato, i fascisti gli saltano addosso. La polizia ha fatto irruzione e ha preso tutti quelli che ha trovato.
In queste ore terribili di incertezza, Natalia non sa che fare. In viale delle Province all’improvviso squilla il telefono, qualcuno dall’altro capo la chiama “Signora Ginzburg”, poi attacca bruscamente.

All’alba bussa alla porta Adriano Olivetti
All’alba, alla sua porta bussa Adriano Olivetti, con la notizia che non avrebbe mai voluto sentire: Leone è stato arrestato. Lei deve nascondersi in un convento di monache, non può fare altro che cercare almeno di mettersi in salvo e di tenere anche i bambini al sicuro.
Inizialmente i fascisti non sanno chi sia l’uomo a cui hanno fatto scattare le manette ai polsi. Sui suoi documenti c’è quel nome, Leonida Gianturco, che nessuno ha mai sentito nominare, e per questo lo portano a Regina Coeli, lo imprigionano nel braccio italiano. Poi, però, all’inizio di dicembre, viene fuori la sua vecchia scheda, compilata al tempo in cui lo hanno arrestato e marchiato come antifascista. Lo riconoscono e lo spostano al braccio controllato dai tedeschi.

L’incontro con Pertini nei corridoi del carcere
È il 9 dicembre 1943, l’inizio della fine. Lo picchiano più volte, vogliono strappargli delle informazioni, dei nomi. I segni di queste violenze li vede Sandro Pertini, anche lui catturato dalle SS, che lo incontra in corridoio, subito dopo l’ultimo interrogatorio. La mano dei tedeschi è stata pesante: Leone ha il viso pesto, coperto di sangue, gli hanno persino fratturato la mascella.
Da lontano, Natalia segue il suo calvario e torna a sperare di poterlo riabbracciare, di poter sentire ancora una volta il suono della sua voce in due occasioni: quando gli americani sbarcano ad Anzio e quando, grazie ad alcuni compagni, Leone viene spostato in infermeria. Da lì vorrebbero organizzare la sua fuga. Ma, la sera del 4 febbraio, Leone si sente male. Forse è il cuore, indebolito da una malattia che lo ha colpito in passato. O almeno così pensa Natalia. Chiede aiuto, ma l’infermiere si rifiuta di chiamargli un medico per dargli soccorso. Nel buio della notte, alla luce fioca della sua lampadina, scrive una lettera a sua moglie. Una lettera che comincia nella speranza che non sia l’ultima e che prosegue confortando Natalia.

“Immagina che io sia un prigioniero di guerra”
Scrive Leone: «Bacia i bambini. Vi benedico tutti e quattro, e vi ringrazio di essere al mondo. Ti amo, ti bacio, amore mio. Ti amo con tutte le fibre dell’essere mio. Non ti preoccupare troppo per me. Immagina che io sia un prigioniero di guerra; ce ne sono tanti, soprattutto in questa guerra; e nella stragrande maggioranza torneranno. Auguriamoci di essere nel maggior numero, non è vero, Natalia? Ti bacio ancora e ancora e ancora. Sii coraggiosa».

Leone, però, non tornerà mai.

La mattina del 5 febbraio lo trovano morto. E quel dolore terribile, Natalia Ginzburg lo porterà sempre inciso nel cuore, scrivendo per l’uomo che ha amato una poesia struggente le cui ultime parole suonano così:

«Allora quando piangevi c’era la sua voce serena;
allora quando ridevi c’era il suo riso sommesso.
Ma il cancello che a sera s’apriva resterà chiuso per sempre;
e deserta è la tua giovinezza, spento il fuoco, vuota la casa

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