Villa Ada, le rosse e cupe sfumature dell’“uva turca” arrivata in Italia nel 1700
Passeggiando in questo periodo autunnale nel parco di Villa Ada, lo sguardo è attirato dal colore rosso cupo dei frutti di una pianta erbacea. È la fitolacca (Phytolacca decandra L.) o “uva turca”, un’erba perenne arrivata in Italia nel 1700, probabilmente per motivi ornamentali, dalle regioni atlantiche degli Stati Uniti. Raggiunge al massimo i tre metri di altezza con il suo fusto prima verde poi rosso-viola, segno distintivo della pianta. La fitolacca dioica che vive in Sud America può arrivare però sino a 20 metri di altezza.
Il nome deriva dal greco phyton (pianta) e dall’indi lakh, come il colorante estratto da un insetto. Si chiama anche “uva turca” perché tutto quello che arrivava da lontano si pensava venisse dalla Turchia, come il granturco. Ha molti altri nomi: “uva uccellina”, forse perché piace molto ai merli che la propagano; “cremesima”; “vite di Spagna”; “uva da colorare”; “spinacio della Virginia” (pokeweed perché si chiama poke negli Stati Uniti, dove si trovano i getti sbollentati in scatola che vengono considerati una prelibatezza).
I fiori ermafroditi, piccoli, bianchi diventano rossastri e fioriscono da luglio ad ottobre. I frutti sono bacche rosso-scuro o nero, divisi in dieci spicchi e ricordano un po’ la forma della zucca. Vi si ricava un succo viola scuro che macchia. Veniva usato come colorante per i tessuti di lana, come inchiostro e nell’industria dolciaria e dei vini. Il fittone, invece, è ricco di saponina che viene utilizzata come detergente naturale. Le radici e le foglie contengono composti tossici, ma i germogli delle foglie giovani – bolliti a lungo – vengono mangiati.
La fitolacca si propaga facilmente attraverso le radici, soprattutto nei terreni ricchi di nitrato come quelli agricoli. È un’erba infestante e come tale era considerata un’erbaccia, una “pianta del diavolo” perché la lotta per eliminarla era una punizione. Solo in tempi recenti si è passati ad un “Elogio delle erbacce” (titolo del libro di Richard Mabey edito nel 2011 da Ponte alle Grazie), il cui concetto è culturale: crescerebbero nel posto sbagliato, in realtà sono opportuniste perché spuntano soprattutto su edifici e terreni abbandonati (come le scarpate) e così ne controllano l’erosione migliorandone la struttura; ma spuntano anche in aiuole e giardini continuamente vangati e falciati.
Quando nascono vicino alle colture occorre gestirle in maniera corretta, intervenendo per minimizzare gli effetti negativi e massimizzare quelli positivi che queste erbe hanno, lasciandole quando non provocano danni. Le “malerbe”, infatti, hanno spesso proprietà commestibili e curative come la fitolacca, già scoperta dai nativi americani: gli estratti di radici e frutti curano le infiammazioni, le dermatiti, le mastiti, i reumatismi e stimolano il sistema immunitario.
Il Manzoni, molto attento ai dettagli filologici e botanici, la cita come lussureggiante nella vigna abbandonata di Renzo nel capitolo XXXIII dei Promessi Sposi:
Tra questa marmaglia di piante ce n’erano alcune di piú rilevate e vistose, non però migliori, almeno la più parte: l’uva turca, più alta di tutte, co’ suoi rami allargati, rosseggianti, co’ suoi pomposi foglioni verde cupi, alcuni già orlati di porpora, co’ suoi grappoli ripiegati, guarniti di bacche paonazze al basso, più su di porporine, poi di verdi, e in cima di fiorellini biancastri.