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7 aprile 1944, quando i Gap cercarono di uccidere Vittorio Mussolini

di Sara Fabrizi

Nel corso della Resistenza, sono tantissime le azioni partigiane che si susseguono a Roma, tra lanci di chiodi a tre punte, sabotaggi, veri e propri assalti armati. Tra di essi, c’è anche il tentativo di attentare alla vita di Vittorio Mussolini.

È il 7 aprile 1944, venerdì santo, intorno alle 6.30 del mattino. Un gruppo di ragazzi si apposta lungo via Lima, ai Parioli, non lontano dall’abitazione del figlio del duce. Sono tutti membri dei Gap, i gruppi di azione patriottica, formazione partigiana d’ispirazione comunista. Si tratta di Marisa Musu, Pasquale Balsamo, Fernando Vitagliano, Franco Ferri ed Ernesto Borghesi. Sono armati e pronti a entrare in azione. Sanno che, entro un’ora, Mussolini junior uscirà di casa, come sua abitudine, percorrendo a piedi il breve tratto di strada che conduce al garage, per prendere l’auto. 

Il piano che stanno per mettere in atto è parte di un progetto più vasto. Dopo l’eliminazione di Vittorio Mussolini, infatti, prevedono di uccidere anche il questore Pietro Caruso, spietato collaborazionista dei tedeschi, che sicuramente dovrà presenziare ai funerali del rampollo del capo del fascismo.

Basta poco, però a compromettere la buona riuscita dell’operazione. All’improvviso, dall’androne del palazzo, escono due poliziotti in borghese che fermano Pasquale Balsamo. Gli chiedono di identificarsi. In vista di quella mattina, lui e i suoi compagni si sono procurati dei documenti falsi. Di conseguenza, Pasquale, tranquillo, infila la mano nella tasca per tirarli fuori. Solo allora si accorge di averli dimenticati in un’altra giacca. Così, i questurini lo invitano a seguirli per un controllo. A quel punto, temendo per la sua incolumità, Fernando Vitagliano interviene, spianando la pistola. Ne nasce un conflitto a fuoco, nel corso del quale uno dei poliziotti rimane ferito. Saltata la copertura, i partigiani cercano di darsi alla fuga. Fernando e Franco riescono a far perdere le loro tracce. Gli altri tre, invece, vengono raggiunti e arrestati mentre cercano di nascondersi in un vicino palazzo. 

Quando li portano in questura e li interrogano, Marisa, Pasquale ed Ernesto si rendono conto di aver avuto fortuna. Pochi giorni prima, nello stabile c’è stato un furto, perciò li hanno scambiati per dei ladri. Non sospettano della loro identità né delle loro reali intenzioni. Gli unici a riconoscerli come partigiani sono i commissari Colasurdo e De Longis, che sono in contatto diretto con il Comitato di liberazione nazionale. Grazie a loro, i tre vengono processati e condannati come delinquenti comuni, scampando a una probabile fucilazione.

La vicenda è raccontata anche nel volume di Typimedia Editore “La Storia dei Parioli”

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