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Nuovo Salario, il gelataio Stefano è tornato dall’Ucraina con 36 profughi: “Non li abbandoniamo”

di Marco Barbaliscia

Missione compiuta, ma certamente non ancora finita. Stefano Salvagni e il gruppo di volontari partiti dal Nuovo Salario per l’Ucraina sono tornati a casa dopo un viaggio provante dal punto di vista fisico e morale. Una traversata durata circa tre giorni, iniziata venerdì 18 e conclusasi domenica 20 marzo.

Stefano, titolare della gelateria ‘Doppia Panna’ di via Seggiano 61, è stato il coordinatore di un gruppo di poco più di sessanta persone che in meno di una settimana ha messo da parte le risorse per noleggiare due pullman, riempirli di beni di prima necessità e portarli sino ai confini della guerra, tornando poi in Italia con 36 profughi ucraini ai quali è stata (e continua ad essere) data assistenza. Ma com’è andato il viaggio? Roma H24 è tornata a parlare con Stefano per farsi raccontare i dettagli di un’esperienza umana molto forte.

Stefano, innanzitutto tutto: come stai? 

“Bene, ma molto provato. Ho vissuto un’esperienza toccante che mi porterò dentro per sempre. Il viaggio è stato un susseguirsi di contrattempi, di buone e brutte notizie, di emozioni contrastanti. Decisivo, in termini pratici e umorali, è stato il supporto degli amici che sono partiti con me: Nicola Brunialti, Angela Iacobelli, Martina Vitobello, Nadia D’Ambrosi, Donatella Baroni e Valeriia e Katerina Mamalyha, mamma e figlia ucraine venute da Roma per fare da interpreti”.

Quante persone avete portato in Italia? 

“Sono 36 gli ucraini che hanno raggiunto Roma insieme a noi, quasi tutti bambini, ragazzi e donne. Eravamo partiti con l’idea di accoglierne circa il doppio, ma strada facendo sono sorte delle situazioni che hanno leggermente modificato i nostri piani. Siamo contenti del risultato ottenuto: un numero più esiguo di profughi ha permesso di organizzare un’accoglienza dignitosa. Tutti sono stati sistemati in abitazioni private e nessuno è stato lasciato nei centri d’accoglienza. Durante il viaggio, soprattutto la notte, più volte sono stato preso dall’ansia: sto facendo la cosa giusta, mi chiedevo? L’Ucraina è sotto le bombe, ma è corretto portare via dalla loro terra queste persone? Se lo faccio, devo trovare loro una sistemazione dignitosa, e così ho fatto, con l’aiuto degli amici e delle istituzioni”.

Dove hanno trovato la loro nuova casa gli ucraini che hai portato a Roma?

“In questi giorni stiamo cercando i contatti per inserire i bambini nelle scuole e gli adulti nel mondo del lavoro. Tre ragazzi giocavano a rugby e il presidente di un’associazione sportiva a Trevignano mi ha contattato, mettendo a disposizione la sua struttura. Mancavano solo quattro persone, ma il vice sindaco di Bracciano ha messo a disposizione degli alloggi e posso dire che tutti ora hanno un tetto sopra la testa. Il prossimo passo è l’integrazione di queste persone nel nostro Paese, sino a quando vorranno starci. Questa mattina (22 marzo, ndr) mi è arrivata una lettera che conferma anche che tutti i beni di prima necessità raccolti e portati in Ucraina sono arrivati a destinazione. Molti sono stati portati al fronte”.

Facciamo un passo indietro. Com’è andato il viaggio? Hai incontrato difficoltà logistiche? 

“Numerose, a partire dalla destinazione. L’obiettivo era raggiungere un paese in Polonia, a pochi chilometri da Leopoli (Ucraina). I pullman, però, per motivi di chilometraggio, non sono riusciti a portarci lì e ci siamo dovuti fermare a Cracovia. La stazione della città polacca è stracolma di profughi ucraini che cercano aiuto. I centri commerciali e i luoghi chiusi sono diventati dormitori improvvisati. Si calcola che siano più di 2 milioni le persone che hanno già sconfinato nel paese. Un’altra difficoltà si è palesata al momento dell’accoglienza. Non essendo un’organizzazione umanitaria, ma privati, serviva una referenza per assicurare che non avevamo brutte intenzioni. Questo foglio ci è stato rilasciato dal III Municipio che ha inviato per mail la referenza, dandoci così il via libera a prendere i profughi in totale sicurezza, per noi, ma soprattutto per loro”.

Che situazione hai trovato a Cracovia? 

“Descrivere la guerra a parole mi è ancora difficile, sembrava di essere dentro a un film. Tutti noi l’abbiamo studiata sui libri, vediamo pellicole storiche, ma la realtà porta a vedere cose davvero brutte. A Cracovia si registrano file di profughi che scappano impaurite. Intere famiglie trasportano a fatica un unico sacco nero di plastica che contiene tutto ciò che resta di una vita. Le 36 persone che abbiamo accolto in Italia non ce le ha affidate un’associazione, ma siamo andati a recuperarle una ad una per la strada, parlando con loro e cercando di capire chi potevamo aiutare”.

Hai dei ricordi particolari? 

“Ogni persona che incrociavamo aveva storie tragiche alle spalle, potrei parlarne per ore. Posso fare, però, alcuni esempi. Una mamma, piangendo, si è avvicinata con i suoi figli e mi ha chiesto: “Se veniamo con te, prometti che non ci vendi?”. Questa frase mi ha agghiacciato. Uno s’aspetta il peggio, ma toccandolo con mano ci si accorge che questo non ha mai fine. Abbiamo portato a Roma una famiglia composta da due mamme e tre ragazzi che provengono dal Donbass. Ci hanno raccontato che nel 2014 la loro casa andò distrutta negli scontri, l’avevano appena finita di ricostruire. Ora scappano nuovamente, e tutto è andato perduto. Due volte in otto anni. Nelle orecchie ho ancora la voce di Nikita, 11 anni. La notte dorme, si sveglia con l’incubo delle bombe e poi prova a calmarsi da solo, ripetendosi queste parole: ‘Andrà tutto bene’. Molti bambini ancora non parlano, tutti sono traumatizzati. Basta il suono della sirena di un’ambulanza per vederli andare a ripararsi sotto la branda, traumatizzati”.

Come hai vissuto il viaggio di ritorno? Che rapporto si è instaurato con i profughi? 

“Tutti erano molto diffidenti, negli occhi si leggeva la paura. Se poggiavo una mano sulla spalla di una donna, per darle conforto, si ritraeva diffidente. La disperazione era totale. I bambini ci hanno fatto disegni, ma parlare con gli adulti era difficile. Per la maggior parte del tempo si è stati in silenzio. Tutto poi è cambiato quando siamo arrivati a Roma. Appena scesi a Termini, le persone hanno visto la Croce Rossa, le forze dell’ordine e si sono tranquillizzate. Sono stati registrati, molti hanno fatto il vaccino anti-Covid e visite pediatriche. Solo in quel momento hanno capito di essere veramente al sicuro e sono scattati migliaia di abbracci e ringraziamenti. Momenti di vera commozione”.

Sei stato a Cracovia. In Polonia c’è paura che la guerra possa arrivare anche lì? 

“Ho parlato con molte persone polacche e il sentimento di paura è comune. Una donna mi ha detto che fino a venerdì scorso si respirava un clima sereno, ma ora la tensione è salita. I missili iniziano a cadere a 50 km dal confine, un drone russo è arrivato in Polonia ed è stato abbattuto. La situazione non è tranquilla, anche per il numero di profughi ucraini che hanno raggiunto il paese”.

Una storia di vita incredibile. Te la sentiresti di ripetere un viaggio simile in futuro? 

“Non lo so, ma sarebbe difficile dire di no ad una proposta di tornare ad aiutare la gente colpita dalla guerra. Per ora non ci penso, viviamo alla giornata”.


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