26 Marzo 2022 - 7:24 . Tufello . Cronaca
Guerra in Ucraina, il racconto di Nicolosi, reporter del Tufello: “La gente vive nello sconforto”
di Marco Barbaliscia
Raccontare la guerra attraverso le storie ed i volti di chi cerca di scapparne. Valerio Nicolosi è tra i reporter che in questi giorni terribili sta portando nelle nostre case la sua testimonianza diretta di quanto avviene in Ucraina. Giornalista e fotoreporter, Valerio è nato al Tufello nel 1984 e con una penna (o meglio un pc) e una macchina fotografica descrive con passione il ‘dietro le quinte’ di un conflitto.
Sposato e papà di un bimbo che frequenta l’asilo nido, Valerio Nicolosi è volato in Ucraina il 23 febbraio scorso, il giorno prima dell’inizio dell’invasione russa. Lavora per Micromega, storica rivista di cultura politica e filosofica. Impegnato nella sezione online, Valerio approfondisce la guerra nell’Est Europa attraverso podcast dedicati principalmente al tema della fuga dei civili dal cuore del conflitto. Ma come sta la popolazione di Kiev e dell’Ucraina? La redazione di Roma H24 lo ha intercettato telefonicamente per fare il punto della situazione e provare ad analizzare i possibili scenari futuri.
Valerio, qual è stata la tua esperienza in Ucraina e che posti hai conosciuto?
“Sono arrivato in Ucraina il 23 febbraio, la sera prima dell’attacco. Poi sono stato a Kiev sino al 2 marzo e ho iniziato ad uscire dal paese insieme alla popolazione per raccontare il loro esodo, passando per Chișinău (Moldavia). Sono rientrato in Italia e poi ripartito per il confine tra Ucraina e Romania”.
Per poche ore hai vissuto in Ucraina in tempo di pace. Si respirava già aria di guerra?
“Devo dire di no. Sono arrivato a Kiev alle 19 e ho raggiunto tranquillamente l’hotel in taxi. La capitale era serena e si registrava un po’ di tensione solo per il Donbass, regione dove tutti pensavamo si sarebbe limitato il conflitto. La gente viveva tranquilla, bar e ristoranti erano aperti. I più pessimisti ipotizzavano un combattimento per le strade di Kiev, ma comunque non nel breve periodo. Ci sbagliavamo: in poche ore la città ha completamente cambiato faccia”.
Sei rimasto a Kiev diversi giorni, vivendo a stretto contatto con la gente. Qual è la loro situazione?
“Si vive in un clima di terrore e spavento, ma questo è scontato dirlo. Quando cadono le bombe il pensiero della gente è rivolto solo a mettere in salvo la pelle. Nei primi giorni si vedeva l’incredulità negli occhi delle persone che mai avrebbero pensato di essere attaccati su larga scala. Poi si è passati allo sconforto per una situazione della quale se ne prende sempre più atto con il passare dei giorni. Dopo aver metabolizzato di essere in guerra, si realizza lo status di profugo: da cittadino che studia o lavora, non si ha più nulla e si deve scappare”.
Kiev era pronta alla guerra? Quando sono suonate le sirene le prime volte, la gente sapeva cosa fare?
“Non c’era nulla di pronto o di premeditato. All’inizio la gente scappava e basta, senza una vera meta in testa. Almeno la metà delle persone che abitava a Kiev è andata via. Ho visto code infinite di civili in fuga con un solo trolley, uno zaino o una busta tra le mani. Chi resta cerca rifugio nelle metropolitane, oppure nei garage che sono uno o due piani sotto il livello strada”.
Qual è la quotidianità di chi ora è a Kiev? Ci sono ancora scorte alimentari?
“Il cibo è razionato, ma ancora arriva. Nella capitale stanno entrando numerosi convogli con aiuti umanitari. Il problema riguarda maggiormente le città dell’Est, come Mariupol e Kharkov: lì tutto è più difficile, perché gli aiuti non arrivano. Mariupol cadrà per fame”.
In questi giorni hai raccontato molte storie di profughi che scappano dall’Ucraina. Quali ti hanno colpito di più?
“Una storia particolare è quella che mi ha raccontato una signora russofona, originaria di Sebastopol, in Crimea. Nel 2014, dopo l’annessione della regione alla Russia, aveva deciso di partire con il marito dalla città, lasciando lì la sua famiglia, vicina alle idee di Putin. Ha iniziato una nuova vita a Kharkov, in Ucraina. Allo scoppio della guerra, era in Crimea, in visita dai suoceri. Ha messo in mano i suoi figli a loro, dicendo di prendere un aereo e scappare. Dopo una serie di voli, i suoceri e i bambini hanno raggiunto la Spagna. Lei ha preso la macchina, è tornata a Kharkov per prendere vestiti e beni da casa ed ora è in viaggio, cercando di raggiungere i figli in automobile. Questo è un classico esempio di quella che ho definito “famiglia spezzata”: donne sole che scappano con i bambini e uomini costretti a restare. Nei racconti si romanticizza questa resistenza, ma non c’è niente di disumano nel non voler combattere”.
Si parla molto della figura del reporter di guerra. Quali caratteristiche bisogna avere per ricoprire un ruolo simile?
“C’è solo una regola fondamentale per fare il reporter di guerra, ed è quella di pensare alla propria sicurezza. La salvaguardia di se stessi viene prima della notizia. Il resto è tutto aleatorio e dipende da caso a caso, ma bisogna sempre ragionare in termini di sicurezza. Non è un gioco, è un lavoro molto pericoloso”.
Passato in Ucraina, sei rientrato in Italia e poi ripartito. Con quali emozioni?
“La prima volta sono partito pensando di avere tempo per organizzare il lavoro, ed invece non si è potuto perché le bombe sono arrivate a Kiev nell’immediato. Sono tornato perché non avevo protezioni, né vestiti: per dieci giorni non mi sono lavato o cambiato di abiti. Ho potuto farlo solo in Romania, entrando in un negozio e comprando di tutto. Il secondo viaggio è stato utile per approfondire il tema delle migrazioni”.
Stai vivendo la guerra da vicino: quali scenari futuri ipotizzi?
“Credo che a breve possa esserci una svolta, e me lo auguro con tutto il cuore. Entro due settimane potrebbe arrivare l’accordo tra Russia e Ucraina. I toni rispetto all’inizio sono cambiati, possono essere segnali interessanti. Nei paesi limitrofi non c’è paura della guerra. La gente si sente al sicuro sotto lo scudo della Nato”.