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Quando Alarico e i barbari da Porta Salaria conquistarono Roma

di Sara Fabrizi

È la notte del 24 agosto 410: 1.608 anni fa. E Roma brucia. Uomini armati si aggirano per i palazzi dei patrizi, saccheggiano oro e preziosi, uccidono chiunque provi a fermarli. La città è in preda al caos. I Visigoti sono entrati a Roma e ne fanno quel che vogliono. È la fine del terzo assedio condotto da Alarico, che ha cercato, già nel 408 e nel 409, di piegare alla sua volontà la capitale dell’impero: una lunga terribile tortura per i Romani, chiusi dentro le mura della loro stessa città, ridotti alla fame, indeboliti dalle malattie contagiose che in queste condizioni si diffondono rapidamente. In mancanza di cibo c’è chi ha cominciato a mangiare cani, gatti e topi. Si è arrivati ad atti di vero e proprio cannibalismo. Ma il sacco di Roma, quest’evento tanto tragico da essere ritenuto il punto di non ritorno dell’impero romano, il proverbiale “inizio della fine”, avviene senza che ci sia un vero scontro tra Romani e Visigoti.

I battenti aperti
La calda notte del 24 agosto i barbari entrano da Porta Salaria. Trovano i battenti aperti, non devono minacciare o uccidere nessuno. Hanno campo libero per penetrare in città e metterla in ginocchio, riducendola a un ammasso di macerie fumanti. Sembra che qualcuno li abbia aiutati, ma chi sia stato è un mistero. E sul mistero fioriscono le ipotesi e le leggende, necessarie a spiegare come sia possibile che Roma sia caduta in una notte, senza combattere.

Sozomeno, storico vissuto tra il 400 e il 450, parla soltanto di tradimento, senza fare nomi né scendere in dettagli. Con la sua testimonianza si insinua soltanto il dubbio che qualcuno, dall’interno, abbia collaborato per la rovina di Roma.

La mano di una donna
Secondo Procopio di Cesarea, la responsabile sarebbe una donna, la facoltosa matrona Anicia Faltonia Proba. Impietosita dalle condizioni terribili dei suoi concittadini, convinta che non ci siano più speranze per la città, Proba ordina ai suoi servi di aprire le porte ai barbari. Questa versione della vicenda, però, sembrerebbe essere nient’altro che un pettegolezzo. Una calunnia messa in giro per infamare la famiglia degli Anicii, di cui Proba faceva parte, colpevole di essersi opposta all’ascesa dell’usurpatore Attalo. Tuttavia è vero che la Domus Pinciana, la splendida residenza sul Pincio in cui Proba abitò fino alla sua partenza per l’Africa, non sembrerebbe aver subito danni durante l’assedio. Umberto Roberto, inoltre, nel libro “Roma Capta: il sacco della città dai Galli ai Lanzichenecchi”, osserva che questa domus è stata confiscata dal fisco imperiale subito dopo il Sacco del 410. Un caso oppure la punizione per un sospetto di collusione tra la famiglia degli Anicii e i Visigoti?

Ma lo stesso Procopio fornisce anche un’altra versione della vicenda, contraddicendosi da solo e contribuendo a rendere ancora più intricato il mistero di Porta Salaria. Racconta, infatti, che il feroce Alarico, impavido guerriero e re dei Visigoti, avrebbe agito di astuzia più che di forza.

Quei 300 giovanissimi
L’espediente utilizzato per oltrepassare le grandi mura Aureliane sembra preso direttamente dall’Iliade e replica l’astuzia del cavallo di Troia. Alarico, così, sceglie tra gli uomini del suo esercito 300 giovani, imberbi, dalle fattezze gentili e delicate, da offrire ai patrizi romani in dono come schiavi. Fa finta, poi, di togliere l’assedio alla città e allontanarsi, esattamente come i Greci a Troia, dopo aver lasciato il loro “dono di pace” ai nemici. Un dono ingannevole come un frutto velenoso. I giovani, infatti, sono soldati addestrati a cui Alarico ha affidato il compito di carpire la fiducia dei propri padroni, circuirli per avere mano libera e poter aiutare i propri compagni dall’interno. Sono questi 300 traditori, secondo l’ipotesi alternativa fornita da Procopio, ad aprire le porte. Stando a questo racconto, inoltre, l’orario dell’ingresso dei barbari verrebbe decisamente spostato. Procopio sostiene che ai soldati sarebbe stato dato l’ordine di aspettare fino a mezzogiorno. Devono approfittare del momento di maggior rilassatezza dei propri padroni, subito dopo il pasto, per agire indisturbati.

Il Sacco di Roma dura in totale tre giorni, dal 24 al 27 agosto. Da Porta Salaria, arrivare fino al cuore della città è un’impresa piuttosto semplice. A salvarsi, in queste terribili ore, sono soltanto coloro che si recano a San Pietro, a San Paolo e nelle chiese minori. Alarico, infatti, pur essendo un barbaro, è un cristiano di credo ariano e rispetta la fede. I suoi uomini possono uccidere, stuprare, razziare, ma hanno l’ordine tassativo di non toccare i luoghi di culto. Si racconta persino di ricchezze risparmiate alle ruberie perché appartenenti ai beni della Chiesa.

Romolo Augustolo
Tre giorni bastano ai Romani per rivivere il terrore che hanno conosciuto, prima di questo momento, soltanto un’altra volta. Nel 390 a.C., ben otto secoli prima d’ora, c’è già stato un Sacco di Roma. Era il 18 luglio e, in quel caso, si trattava dei Galli Senoni guidati dal terribile Brenno. Ma il 24 agosto 410 d.C. chiude di fatto un’epoca: è quasi il canto del cigno dell’impero romano d’Occidente, che cadrà ufficialmente con la deposizione dell’ultimo imperatore fantoccio, Romolo Augustolo.

Roma conoscerà altri terribili assedi e sconfitte, da quella dei Vandali di Genserico nel 455 fino all’incursione saracena dell’846, per arrivare all’ultimo grande Sacco di Roma, quello dei Lanzichenecchi del 1527.

Questo momento, però, resta marchiato a fuoco nella memoria di Roma, forse anche per quel mistero irrisolto di una porta aperta, pronta a lasciar entrare il nemico armato. Non si può nemmeno più alzare gli occhi su Porta Salaria e provare a interrogarla, a cercare dei segni che parlino di questa storia.

Demolita e ricostruita alla fine dell’Ottocento, nel 1921 è stata condannata per sempre alla distruzione per poter aprire piazza Fiume. Una labile traccia rimane, nel selciato della piazza, lungo quel varco che si apre nelle Mura aureliane. Dei cubetti in porfido segnalano l’antico tracciato e al centro della strada, proprio dove passano autobus e macchine, si legge ancora “Porta Salaria”.

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