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“Le mie battaglie per Villa Ada e i suoi alberi”

di Marco Liberati

“Villa Ada è un luogo di pensieri liberi e di gesti intimi». Siamo fuori dall’ingresso di Villa Ada, sulla via Salaria. Teniamo gli occhi chiusi e nelle orecchie arriva il rumore del traffico che scorre veloce lungo la consolare, mentre nel naso passa solo il poco sopportabile odore dello smog. Veniamo presi per mano e attraversiamo il cancello d’ingresso, sempre affidandoci a chi ci sta portando dentro. «Serve a creare fiducia», ci spiega Silvia Arbicone.

Silvia ha capelli d’argento, occhi che sprizzano curiosità e una capacità unica di ammaliare attraverso le parole. Dopo pochi metri i rumori spariscono, a prendere il sopravvento è il frinire degli insetti, il rumore delle foglie e l’odore delle piante. Non è magia, ma solo la natura che riprende il suo ruolo, che regala un momento di pace. Silvia ha passato parte della sua vita dedicandola, prima insieme al marito e poi con il figlio, alla scoperta e alla cura del grande parco che è il cuore del Trieste-Salario. Ancora oggi, nonostante i decenni spesi quotidianamente dentro la villa, non manca giorno in cui non faccia visita ai suoi grandi amori, gli alberi, «con cui è necessario entrare in relazione. Vanno ascoltati, bisogna conoscerne il nome, insomma vanno conosciuti».

La sua storia parte da lontano, dagli anni della guerra. Come nasce Silvia Arbicone?

«Nel Trieste-Salario, a via Adige, davanti al Giulio Cesare, che poi è diventato il mio liceo. Di quel periodo ricordo l’introduzione delle leggi razziali e gli schieramenti tra bambini. Giocavamo nei giardini e nella strada, eravamo divisi in due gruppi. Il nostro si era autoproclamato “Siamo ricchi e poveri”, l’altro si era chiamato “la banda dei tre cancelli”».

Cosa ricorda di quel periodo?

«Tenevamo nascosti in casa gli ebrei per salvarli, ma l’episodio clou, che ha determinato la mia formazione, è stato quello delle Fosse Ardeatine. Di fronte a noi, al civico 43, abitava Giuseppe Lo Presti, prima torturato a via Tasso e poi ucciso. Nel nostro quartiere una delle ricerche da fare è proprio quella di ricostruire queste storie».

Poi il diploma, la laurea in giurisprudenza e l’inizio dell’insegnamento di diritto e economia.

«Dopo aver conosciuto mio marito, mi sono trasferita due anni a La Spezia per sono tornata nel quartiere e ho conosciuto mio marito. Qui ho insegnato nell’Istituto tecnico commerciale Mattei, di piazza Vescovio, che oggi non c’è più».

Come è nata la grande passione per Villa Ada?

«Quando eravamo piccoli, qui avevamo solo i giardini e le strade come luogo di gioco, al massimo andavamo a Villa Paganini o Parco Nemorense, ma in tanti entravano dentro Villa Ada attraverso dei buchi che venivano fatti nelle recinzioni, descrivendola come meravigliosa. La sezione del Pci di via Sebino, iniziò però a raccogliere le firme per riuscire ad aprirla e finalmente nel maggio del 1958, 70 ettari furono requisiti dallo Stato per essere concessi ai cittadini».

Questo è stato solo il primo passo di un percorso che quest’anno, a maggio, ha visto compiersi i sessant’anni di apertura.

«Vero. L’altra lotta durissima è stata vinta tramite la raccolta firme per ottenere la destinazione a parco nel 1965, un cambiamento che si è rivelato, successivamente, fondamentale per la salvezza di Villa Ada: non si poteva più costruire dentro. I Savoia, per salvaguardarsi, avevano dato i terreni a società immobiliari, ma nel ‘90, tramite la legge 396/1990 per Roma Capitale, sono stati acquisiti anche gli altri 74 ettari».

Un rischio scongiurato quindi, ma il vostro contributo è stato decisivo?

«Avevamo promesso che le migliaia di firme, 5mila ogni domenica sarebbero state portate in Campidoglio. In molti temevano che il parco potesse fare la fine di Villa Torlonia, diventata landa desolata dopo l’apertura al pubblico. Alla fine ci siamo riusciti, presentandone un totale di 50mila, un elenco lunghissimo srotolato dalla statua del Marco Aurelio fino a piazza Venezia. Uno dei contributi fondamentali è stato dato da Augusto Ciuffini».

Non solo il suo impegno, ma anche quello di suo marito Gianni Grassi, la cui memoria è ricordata con una targa sistemata in un largo, dietro al laghetto della parte alta. La vostra attenzione non è calata nemmeno dopo il 1994, anno in cui sono stati aperti al pubblico i rimanenti 74 ettari del parco?

«Lo abbiamo promesso a suo tempo e questa affermazione vale anche oggi: noi saremo i custodi della salvaguardia della villa, ci batteremo sempre affinché rimanga parco pubblico per tutti. Questo impegno è stato poi trasmesso a mio figlio Lorenzo, che ha portato, finalmente, al recente incontro tra le associazioni e il Comune».

E come avete continuato a vigilare?

«Dopo quel primo passo del 1994, abbiamo continuato a presidiare quotidianamente il parco. Giravamo ogni pomeriggio a controllare, anche nel periodo della malattia di mio marito, ma lui voleva venire comunque. Abbiamo lottato fino all’ultimo suo istante. Entravamo per rilassarci, ma poi intervenivamo se ci capitava di vedere qualcuno entrare in macchina o con il motorino».

Villa Ada è stata fonte di aiuto nel momento più difficile?

«Il messaggio che ci ha lasciato Gianni è chiaro: si vive fino alla fine, anche nel dolore. Io andavo la mattina in villa, per rigenerarmi, prima di andare in hospice. E dopo ho voluto reagire, iniziando a scrivere il primo libro sugli alberi. Gli alberi parlano, ti dicono: non ci hai mai guardato, non sai chi siamo. Venivo quasi presa in giro quando lo dicevo, ma questi grandi essere viventi arrivano quasi a interrogarmi su di loro, sulle origini. Ho sentito che dovevo raccontare la loro storia e per questo ho continuato a scrivere».

E come è iniziato questo avvicinamento?

«Naturalmente non sono una botanica, provengo da un altro campo di studi. Così ho chiesto aiuto a un esperto dell’Orto Botanico di Roma, Flavio Tarquini, che si è messo a mia disposizione con una prospettiva diversa, attraverso l’etnobotanica, ovverosia studiando gli alberi nel loro contesto storico e sociale».

L’ultimo passo è stato organizzare le visite guidate dentro Villa Ada. Che accoglienza hanno ricevuto?

«Attraverso i quattro libri che ho pubblicato abbiamo pensato a dei percorsi verdi, dedicati agli alberi monumentali e alle erbe. Le nostre visite fanno poche tappe, al massimo cinque piante, ma che rimangono impresse. Di solito il percorso si conclude sotto la grande quercia roverella, dove c’è quella che chiamo la mia “panchina studio”. Passiamo per il cedro glauca pendula, per quello himalaiano o per il bosco di magnolie. Il nostro progetto è iniziato nel 2010 e nel 2017 abbiamo organizzato 13 visite con 194 partecipanti».

Che futuro vede oggi per Villa Ada?

«Vogliamo continuare a collaborare con le altre associazioni. Mi piacerebbe preparare un libro fotografico, con cui raccogliere le immagini degli alberi monumentali, ripresi dalla stessa posizione durante le quattro stagioni. L’altra idea è di organizzare degli incontri con i bambini, presentando loro le favole legate proprio agli alberi. Da metà settembre comunque ripartiranno le visite domenicali mattutine, a cadenza di 15 giorni, un paio d’ore per conoscere questo meraviglioso parco da una prospettiva diversa».

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