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“In carcere non vedo mostri, ma persone povere, sole e bisognose”

di Antonio Tiso

“In carcere non vedo mostri, ma persone povere e sole che vanno aiutate a riprendere le loro vite. Non possono marcire dentro. Oggi Rebibbia è una scuola di rabbia, violenza e delinquenza, dove i carcerati non sono rispettati nei loro diritti e nella loro dignità”. Sono le parole di padre Lucio Boldrin, parroco per 16 anni alla Santissima Trinità di via Marchetti, oggi cappellano del carcere di Rebibbia. Al negozio Kent di viale Somalia, ieri mercoledì 22 gennaio, ha raccontato la sua drammatica esperienza.

Erano in tanti ad ascoltarlo. Il suo è stato un racconto duro ed emozionante. Padre Lucio, veronese di origine, la domenica alle 12 dice messa a Santa Croce al Flaminio, ma in settimana spende molto del suo tempo al 41 bis, il reparto speciale che ospita i mafiosi.

Padre Lucio Boldrin

“Ho a che fare con personaggi che raramente si pentono. Ci sono ragazzi del 1997, si sono abbeverati di una realtà mafiosa da cui non escono fuori”. Il cuore del suo discorso è andato però agli invisibili, gli autori di reati comuni che scontano pene vivendo in condizioni terribili: “Il reato va punito, ma le persone vanno rispettate”.

Quello che il sacerdote cerca di spiegare ai presenti è che la detenzione, così com’è strutturata oggi, non è rieducativa: “I posti, sulla carta sono 2200, ma nella realtà la struttura ospita 2685 persone. Le stanze da 3 diventano da 6 e i bagni alla turca mettono in grande difficoltà i carcerati con più di 75 anni.” Rebibbia è grande quattro volte Porte di Roma, eppure gli spazi a disposizione per le attività sono ridotti. “Ci sono gazebo dove ci si incontra coi familiari che sono rotti. Infiltrazioni alla chiesa, per la quale servono 40.000 euro per ristrutturare il tetto, altrimenti sarà chiusa. In generale non si fanno lavori di manutenzione: ci sono vetri rotti e acqua fredda. E anche gli agenti sono sotto organico.”

Padre Boldrin, ha 61 anni ed è prete da 36. Ogni giorno entra a Rebibbia alle 8.30 del mattino ed esce la sera alle 19.30. “I clochard vengono messi dentro per reati banali, uno ha scontato 22 giorni perché ha rubato una pigna in un parco pubblico per mangiarne i pinoli. Un altro è stato messo in galera per 23 giorni per aver rubato una mozzarella”. Il denaro fa la differenza anche nel carcere: “Ogni carcerato paga 118 euro al mese per avere il posto branda: a chi lavora viene detratto dalla busta paga. Idem per chi ha la pensione. Ma il problema è per chi non ha nulla e quando escono dal carcere, magari dopo 10 anni, arriva la lettera di Equitalia che chiede il conto”. E cosa può fare dunque un cappellano in queste situazioni? “Noi cappellani aiutiamo chi non ha niente, come gli stranieri che non hanno familiari, né la possibilità di chiamare a casa perché non possono permettersi una scheda telefonica”. Secondo don Lucio in carcere ci sono persone per reati sotto i 18 mesi che potrebbero stare ai domiciliari. “Molti escono peggiori da Rebibbia, si potrebbe alleviare la loro condizione e quella dei familiari facendogli scontare la pena a casa o in una comunità”.

A Rebibbia vivono 60 persone sopra i 75 anni, alcuni dei quali in carrozzina, altri ciechi, diabetici o con l’Alzheimer. “Un ragazzo di 40 anni è stato colpito 10 giorni fa da ischemia, ma ancora non è stato ricoverato”. Quando padre Boldrini esce la sera ci sono mani tese tra le sbarre per mandargli un Sos. “È giusto che paghiamo, mi dicono, ma non siamo bestie, aiutaci a far sentire la nostra voce”. Secondo il sacerdote il 98% dei detenuti rientra in carcere: “Questo è un fallimento totale. Quando escono si trovano senza sbocchi di lavoro. Dopo 5, 10, 20 o 30 anni non hanno più niente fuori. Un carcerato di 75 anni mi ha detto: “Aiutami a morire in carcere, perché fuori non ho più nulla, né una casa, né una famiglia pronta ad accogliermi”. Il carcere, così, non è più rieducativo. Ci sono carcerati che stanno 21 ore su 24 in cella. Ci sono analfabeti e un 3 – 4% che per me sono innocenti che nessuno ascolta. Molte persone sono state incastrate come prestanome o vivevano ai margini. Poi ci sono casi psichiatrici bombardati di medicine, che alla messa mi appaiono come zombie”.

Secondo padre Lucio, non c’è pietà verso i detenuti neppure quando escono dal carcere: “Sono accompagnati fuori e lasciati su via Tiburtina. Un malato di Alzheimer di 82 anni, in carrozzina, è stato lasciato alla porta e lui chiedeva perché non portavano la cena. L’ho aiutato d’urgenza, trovando una casa famiglia a Velletri che lo accogliesse”.

Difficile anche farsi ascoltare a Rebibbia, tanto che alcuni detenuti arrivano a scelte estreme: “Qualcuno per farsi ascoltare si taglia il corpo o fa lo sciopero della fame. Poi dopo due giorni di infermeria, però tornano nel loro limbo”.

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