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“Come eravamo”, perché la memoria è così importante
di Giorgio PanizziQuesto libro di fotografie di un tempo passato, che Luigi Carletti ci presenta nell’ambito di una collezione – curata da Typimedia, la sua casa editrice – di particolare interesse sulla vita, sulla storia e sulle immagini dei quartieri romani e del quartiere Trieste-Salario, è denso di significato.
Si potrebbe dire che è un libro sul ricordo e sulla memoria e, proprio riflettendo su ricordi e memoria, si deve sottolineare l’importanza di questo volume.
Innanzitutto la precisione, la puntigliosità, dell’opera. Andare a ricercare le fonti, le immagini, le testimonianze non è lavoro di poco conto. Ed è interessante il paragone, che spesso è esplicito ma è molte volte sollecitato, tra come siamo e come eravamo.
Ci sono certamente le immagini delle persone e, molte volte, le loro storie. Ma le immagini dei luoghi sono significative. Perché la memoria quotidianamente si rafforza in quei luoghi, silenziosamente, all’incedere di ogni nostro passo.
Quante volte infatti passiamo per strade e marciapiedi, accanto a palazzi, sfioriamo edifici che sono monumenti con cui conviviamo e non riflettiamo che questi fanno e faranno la nostra cultura, la cultura di quelli che ci passeranno, come hanno fatto la nostra cultura nel momento in cui sono stati progettati e condivisi.
L’importanza di questo libro sta allora nel suo incastonamento nella nostra memoria. Ma cos’è la memoria. Italo Calvino ci diceva che la memoria ci permette di diventare senza smettere di essere.
Più propriamente scriveva che ”la memoria conta veramente per gli individui, le collettività, le civiltà. Solo se si tiene insieme l’impronta del passato e il progetto del futuro, se permette di fare senza dimenticare quel che si voleva fare, di diventare senza smettere di essere, di essere senza smettere di diventare”1.
Questa idea di “essere senza smettere di diventare” ci invita a considerare la memoria stessa come progetto, non come oggetto, fonte di curiosità e nostalgia. La memoria è quindi un progetto. È differente dai ricordi.
I ricordi sono fallaci. Sono puntuali se documentati con scritti e con immagini, con edifici e monumenti. Ancorché fallaci, sono immutabili quando sono documentati e fissati nelle opere, nelle immagini. Pur se le immagini richiedono una interpretazione del contesto, quand’anche non siano esse stesse fallaci.
La memoria, astraendo da queste immagini e da questi luoghi, elabora comportamenti e prospettive per far sì che la loro presenza diventi momento anche inconsapevole della nostra vita quotidiana.
La memoria ci fa elaborare i contenuti e l’interpretazione di quei ricordi e, proprio perché ne frequentiamo luoghi e rievocazioni diventa oggetto del nostro essere presente e del nostro divenire. Parafrasando Edelman: la memoria è una proprietà dinamica della mente capace di ricategorizzare tutte le esperienze.
Le esperienze non vissute, ma recuperate attraverso i ricordi e la storia, le informazioni, vengono rielaborate dalla memoria e ricategorizzate come esperienze. Contribuiscono a formare la nostra cultura e a darle un futuro.
Quindi le immagini e i cenni storici riportati in questo libro – Come eravamo, Trieste- Salario 1860/1950 – costituiscono un patrimonio fondamentale per la nostra cultura attuale, per quella che vogliamo tramandare, poiché riflettendo, ricategorizzando quanto ci illustrano e ci espongono ci fa partecipi di un progetto di sviluppo della nostra memoria per l’approfondimento di quanto documentato e per la prosecuzione dell’illustrazione delle cronache e delle esperienze degli anni successivi.
Un progetto che fa esaltare la collocazione urbanistica e sociologica del quartiere Trieste-Salario nell’intera Roma.
Se si considera l’urbanistica del quartiere Trieste-Salario e si collegano le immagini della costruzione degli edifici e delle strade che lo compongono si ha un’idea di quanto possa essere significativo questo quartiere nella città di Roma.
Il richiamo all’opera di Italo Insolera – in cui il Trieste-Salario è ampiamente citato – è d’obbligo e l’indicazione a tutti noi presenti di quanto sia caratteristica e rigorosamente corretta questa urbanistica è esemplare.
L’insediamento principale dichiarato nel libro sono le case dell’INCIS, valorizzate dalle lapidi apposte nel cantonale di un edificio in Piazza San Saturnino.
Accanto alla lapide, pubblicata nel libro, ce n’è un’altra con scritto “hic manebimus optime”, un augurio, ma anche una costatazione se questo quartiere è ritenuto tra i migliori di Roma. Le case dell’Incis sono l’indice di un’architettura costruita a misura d’uomo.
Il quartiere con i suoi edifici, con le sue strade con gli istituti per la vita pubblica è stato costruito con parametri architettonici “vitruviani”. Si guardino i rapporti tra l’ampiezza delle strade e dei marciapiedi e l’altezza dei palazzi. Sono rapporti che non si ripetono nell’edilizia privata successiva, tra piazza Verbano e piazza Vescovio.
Se avessimo vigilato gli scavi dei cantieri sostitutivi degli edifici, ad esempio in piazza Ledro, avremmo potuto constatare l’esistenza di “gallerie” di servizi fatte a regola d’arte, percorribili ma spodestate dalle loro funzioni, interrate, per far posto a vani e androni.
Ancora esiste, sovrastante la chiesa di San Saturnino e alcuni degli edifici delle ex cooperative dei “quadri” delle FFSS, il cavo di congiunzione delle sirene per gli allarmi aerei istallato all’inizio degli anni quaranta.
Il libro è pregevole. Sollecita approfondimenti ed è augurabile che i validi collaboratori di Carletti siano stimolati a proseguirlo, anche sollecitati da contributi di altri epigoni della società di questo quartiere. Le storie e le immagini sono molteplici. Le storie commerciali sono avvincenti e ne è emblematico Gentilini. Il catalogo delle loro vetrine potrebbe costituire un’opera a sé.
Le botteghe storiche sono un emblema della città e del quartiere ed è un onore per noi che la loro Associazione sia presieduta da Giulio Anticoli, che proviene anch’egli da una generazione storica di negozi, coeva del quartiere Trieste-Salario.
L’edilizia, con le sue architetture, oltre quelle audaci del quartiere Coppedè, mostra caratteristiche peculiari con modanature, fregi e metope. Ricordo, per esempio, i palazzi di via Sebino.
Si potrebbero recuperare i plastici delle case dei “quadri” delle FFSS. Fu questo il primo insediamento di edilizia pubblico/privata su larga scala – 1920÷1927 -, nel quartiere. 48 palazzine di tre piani, con otto appartamenti ciascuna, che hanno dato luogo a una pregevole urbanizzazione primaria.
Si guardi appunto via Topino. E le strade che, parallele a via Nemorense, vanno verso via Salaria–via Benaco, via Ceresio, via Fogliano, via Lariana, via Salaria stessa – ma anche, verso Corso Trieste, via Sabazio.
Le FFSS, attraverso cooperative di dipendenti, contribuirono alla costruzione di edifici per abitazione riservati ai dirigenti nell’area di di vale Regina Margherita prospiciente Villa Patrizi; ai quadri intermedi nell’area dell’attuale quartiere Trieste; per le maestranze a val Melaina. Il volume è stato curato da Antonio Tiso, Sara Fabrizi, Daniele Galli e Fausto Giani. Il progetto grafico è di Chiara Campioni. Product Manager: Melania Tarquini. Comunicazione e social marketing: Silvia Leone.
Alcuni di questi edifici sono stati sostituiti da palazzine moderne. Un plastico della zona potrebbe essere ancora reperito dagli eredi di un cultore della storia del nostro quartiere qual era Eugenio Filippello, che abitava in via Ceresio.
Significativi sono anche i ricordi delle persone. Sia le foto di persone e di famiglie, sia le citazioni di lapidi quali, tra le altre, quelle di Ciro Menotti e di Carlo Avolio.
In un approfondimento successivo si potrebbe citare Elsa de Giorgi. Un’attrice bellissima, compagna di Italo Calvino negli anni cinquanta ma attiva nel quartiere Trieste durante la lotta di Liberazione.
Elsa abitava in via di Villa Ada, allora via di Villa Savoia e – date anche le sue possibilità economiche – partecipò alla Resistenza romana contro i nazifascisti ospitando e nascondendo personaggi illustri, tra i quali Giuliano Vassalli e Giuseppe Romita.
Faceva la spesa di nascosto in negozi storici de quartiere: Cerasari (rimangono alcuni negozi in via Salaria dei figli di Sor Pietro); la latteria Peverini; il forno Lucarelli – poi gestito da Mario Testa – allora collocato all’angolo tra viale Liegi e via Salaria.
Elsa de Giorgi ha proseguito la sua attività mecenatesca anche dopo gli anni cinquanta ospitando nella sua casa di via di Villa Ada un salotto di letterati e persone di cultura insigni per un emblematico risotto’settimanale.
Ecco i ricordi. Ma questi vanno rielaborati come se ci si trovasse in un labirinto da cui usciamo ogni giorno, ogni momento, senza sapere che ci siamo dentro poiché condiziona, a nostra insaputa, i nostri comportamenti e i nostri modi di vedere la città.