Roma, 25 Aprile 2024 - 12:19

Storie da tram

Francesca Piro

Anatomopatologa e fondatrice del salotto letterario "“La linea d’ombra”

2 Dicembre 2019

Quei ragazzi che scoprono i loro primi amori sul tram o davanti al Giulio Cesare

L’altra sera sul tram c’erano loro due. Studenti universitari, sono saliti alla fermata del Verano, quella che usano i fisici, i matematici, i chimici, i farmacisti, perché queste facoltà sono tutte su quel lato della Città Universitaria. Una faccia piena di brufoli, i riccioli scomposti con un curioso “effetto banana” sulla fronte, lui. Un cappellino nero indossato al contrario con la visiera sul collo e capelli lisci biondi che scendono dritti ai lati del visi, lei.

Si parlano fitto fitto, entrambi col sorriso. Accanto una signora dell’Est parla ad alta voce al telefono, e allora la ragazza dice: “Quasi quasi le rispondo io. Sta chiedendo all’amica dov’è piazza Ungheria. La capisco, è russo. Un po’ me lo ricordo. Quando mia madre è venuta a prendermi all’Istituto, non parlavo. Però poi quando siamo arrivate in Italia, ho iniziato a parlare. Ma era russo!”. E ride. Lui la guarda, con gli occhi a cuore, mentre lei apre il libro di favole che tiene sulle ginocchia e inizia a sfogliarlo. E con le dita si sofferma sui disegni e li accarezza. “Mi piacciono questi fiori. Dai, leggimi la favola”, gli dice indicando il testo. E lui comincia.

Non accade spesso che ci siano studenti sul tram 3 nelle ore in cui viaggio io. I nostri orari non coincidono. In genere quelli che incontro sono i ragazzi dell’università, quasi mai quelli dei licei del quartiere che a scuola si avviano più tardi. Però ogni tanto capita che io li incontri. E allora li vedi mentre camminano sul marciapiedi davanti a te, qualche volta mano nella mano, lo zaino che pende appeso alla schiena fino oltre il sedere – perché lo portino così, non lo so – i capelli delle ragazze lisci e dritti tagliati a filo, il ciuffo sulla fronte a coprire un occhio, i ragazzi. Si parlano, ridono, inciampano, si abbracciano. Raramente li vedi baciarsi. Se capita, l’immagine ti resta attaccata nella retina perché non vuoi perderla. A questa età c’è una sorta di pudore a mostrare l’innamoramento, come se non fosse ancora chiaro cosa si sta provando. Poi però a volte l’urgenza di dichiararsi sopravanza tutto e succede. Come l’altra sera a corso Trieste.

Sotto la pioggia scrosciante di uno degli improvvisi temporali di questo autunno, caldo di scirocco e libeccio, mi rifugio nell’androne di un palazzo. Davanti a me la fermata del 38 e dall’altro lato della strada, il Giulio Cesare, il liceo classico. Le mie sorelle e io abbiamo studiato al Giulio e ogni volta che ci passo davanti, ripenso a come mi apparissero grandi quelle arcate a squadro che invece oggi mi sembrano così piccole, ridimensionate dagli anni trascorsi. “Tutta esperienza!”, avrebbe detto mio padre.

E mentre sono lì che sfarfalleggio con i miei ricordi, a bucare il muro d’acqua che ho davanti arrivano correndo, curvi e lanciati, lui e lei. Si tuffano nell’androne, schiamazzando e scuotendosi di dosso l’acqua come i cani. Avranno 15 o 16 anni. Ridono, non hanno neanche fiato per parlare, si toccano l’uno con l’altra a togliersi i capelli zuppi dalla faccia. Lei ha un berretto di lana in testa. “Sappi – gli dice – che mo’ me lo devi lascia’… Berretto tuo tutta la vita, sennò a casa non ci torno”. Lui ride, dice sì sì, poi prende il cellulare e si fanno un selfie, con la linguaccia, la smorfia e il pollice hey!

E mentre assisto a tutta questa scenetta, lei dice “Marco, l’autobus!”, fissando il 38 che da lontano sta arrivando. Lui sta armeggiando con il cellulare, e allora lei ripete pressante “l’autobus, Marco!”. E lui mette in tasca il cellulare e poi, come se il tempo si dilatasse e non fosse più importante, alza le braccia, le prende il viso tra le mani e le da’ un bacio leggero sulle labbra, poi la guarda, si volta e con due salti è sul bus. “Ma siamo amici, noi!”, gli urla lei – “Non più”, le risponde lui, mentre le porte si chiudono. Lei si volta, mi vede, ci guardiamo. “Che matto!”, mi dice, come se tutto fosse uno scherzo. Ridiamo, un po’ complici. Sta spiovendo. Mi tiro su il cappuccio e riprendo la mia strada, lasciandola lì a godersi il suo amore appena nato.

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