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EXTRANEWS – La 96enne Vanna racconta come è cambiato il quartiere dalla guerra a oggi
di Antonio TisoFresca dei suoi 96 anni, Vanna Montemurri è una delle donne più anziane del Trieste-Salario. Ha vissuto i cambiamenti e le trasformazioni del quartiere, dai periodi bui alla rinascita, dal boom edilizio fino ai giorni nostri. La sua è una memoria storica importante.
Seduta nel salotto di casa, i capelli cotonati di bianco, Vanna apre il diario di una vita. Elegante nei modi e dolce nella parola, racconta: “Sono nata a Salerno nel 1923 da una famiglia umbra. Mio papà era un industriale, produceva traverse per le Ferrovie dello Stato. Mi sono trasferita con la famiglia a Roma nel 1930, prima a via Belluno e poi a viale Gorizia”.
I ricordi più nitidi di Vanna sono legati al periodo a cavallo della guerra, forse perché era una ragazza, con tutta la vita davanti: “Le strade erano erano pulitissime, non c’erano mozziconi a terra né cartacce. Gli autobus erano in orario. Poi venne la guerra e le cose cambiarono. Roma era una città aperta ma c’era anche tanta paura. La notte suonava l’allarme, anche quattro volte. Noi scendevamo in cantina ma, in caso di attacco, mi rendo conto oggi, avremmo fatto la fine dei topi. Vedevamo i tedeschi passare per strada, una volta vidi quattro soldati prendere un ebreo. Lo tenevano per le braccia e lo portarono via”.
Durante la guerra, nel Trieste-Salario scattava il coprifuoco alle cinque del pomeriggio e questo portò le persone a stare assieme forzatamente: “Nacquero nuove amicizie. Con i condòmini ci trovavamo a giocare a carte. Poi con l’armistizio un signore che abitava sotto di noi venne a trovarci con due bottiglie di champagne. Ci raccontò che era ebreo e si era nascosto sotto falsa identità nel nostro palazzo”.
A mano a mano che Vanna ricorda affiorano nuove immagini: “Ho ancora in mente i campi oltre via Belluno. Una volta, andando a messa vicino Villa Torlonia vedemmo il Duce montare a cavallo. Ci venne incontro e ci salutò. Papà però era per la democrazia. Prima della guerra conoscemmo un ufficiale tedesco, Norbert. Era di stanza all’ambasciata di Roma. Quando scoppiò il conflitto ne fu sconvolto. Fu aggregato all’esercito e trasferito a via Tasso. Lo rivedemmo solo una volta. Era diventato ombroso e cupo. Ci raccontò che alcuni italiani avevano denunciato in maniera anonima un partigiano, ma lui, il nostro vecchio amico, aveva strappato la lettera, prima che finisse nelle mani degli altri ufficiali tedeschi”.
Poi venne il periodo dei bombardamenti: “Quando la situazione a Roma si aggravò, papà, non sentendosi sicuro, decise di affittare alcune camere d’albergo a via Barberini. A via del Tritone un giorno trovammo i soldati tedeschi coi fucili puntati e scoprimmo che c’era da poco stato l’attentato di via Rasella. Fummo obbligati a cambiare strada”.
La fine del conflitto provoca ancora oggi un sussulto di gioia in Vanna: “Dopo la guerra fu tutto diverso. Sarà stata la reazione, ma nel quartiere, come in tutta Roma, c’era esuberanza. Più di tutto, ricordo il piacere della mia prima passeggiata a piedi fino a Villa Borghese, per prendermi un gelato all’aperto. Non si può descrivere la gioia dopo quei cinque anni terribili. Poi, un po’ alla volta, ci fu la ripresa economica del Paese e ricordo il boom dell’edilizia nel Trieste-Salario. Anche mio papà divenne costruttore. Il mercato delle traverse per le ferrovie calò. Tra gli edifici che costruì ne ricordo uno in particolare: a via Buozzi, vicino alla casa di Totò”.
Quattro figli e otto nipoti, Vanna nella sua vita non si è fatta mancare il calore della famiglia: “Con mio marito Diego, medico dermatologo, abbiamo camminato mano nella mano fino al ’98, quando è mancato”. Vanna pone allora l’accento su quella che ormai è la sua condizione: “Ora che sono anziana, mi rendo conto che anche nel nostro quartiere noi anziani siamo male accettati, c’è intolleranza. Se devo attraversare la strada sulla “zebra” sento violenza e aggressività. Mi muovo lentamente, col mio bastone, ma mi passano sui piedi. Eppure il mio percorso sarebbe breve: parto da via Tagliamento e raggiungo la chiesa di piazza Buenos Aires. Ho vissuto tanto, ma resto una persona semplice: datemi due alberi e una panchina e sono felice”.
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