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Sgominata la baby gang che terrorizzava il Trieste-Salario
di Daniela MogaveroHanno terrorizzato il quartiere Trieste-Salario per mesi. I ragazzi vittime delle rapine e delle intimidazioni hanno cambiato abitudini e evitato anche di uscire per non incontrarli nelle loro ronde di paura. Dopo una lunga e complessa indagine i 10 componenti della baby gang, sei dei quali minorenni, che ha tenuto sotto scacco il quartiere, sono stati arrestati in un’operazione della IV Sezione della Squadra Mobile e del Commissariato Vescovio, scaturita dalle denunce degli aggrediti.
Stamattina è finito l’incubo per le vittime dei soprusi della baby gang, che aveva aggredito, vessato e rapinato ragazzi, coetanei, nei quartieri Vescovio, Africano e Coppedè, seminando nell’arco di qualche mese il terrore nei residenti soltanto per «predominare», come sottolinea la Questura nella sua nota.
Alle prime ore di mercoledì 18 luglio gli agenti hanno eseguito il provvedimento restrittivo della libertà personale emesso dal Gip del Tribunale di Roma su richiesta dei magistrati del gruppo rapine della locale Procura della Repubblica a carico di H.A. (custodia cautelare in carcere), B.A. (custodia cautelare agli arresti domiciliari), R.E. (custodia cautelare agli arresti domiciliari), L.O.C.R. (custodia cautelare agli arresti domiciliari) e hanno notificato l’avviso di conclusione delle indagini preliminari e l’avviso di garanzia emesso dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale per i Minorenni a carico di altri sei soggetti, tutti minori.
Seminare paura, ottenere rispetto e vantarsi sui social
L’obiettivo dei 10 ragazzi, la maggior parte minorenni, era quello di incutere timore, vera e propria paura nei loro coetanei, per ottenere rispetto, estorcere oggetti di lusso e vantarsi sui social. Alle vittime, a cui rubavano da cinque a 90 euro, dicevano che i soldi servivano per «fare benzina» o per la droga, ma per gli inquirenti l’obiettivo era vantarsi sui social ed esibire.
L’indagine è partita grazie alle denunce dei ragazzini che, accompagnati dai genitori, sono riusciti a raccontare i soprusi subiti e, grazie al lavoro lungo e tenace degli inquirenti, analizzando gli episodi denunciati, le caratteristiche fisiche degli aggressori, il modus operandi e i social network, hanno individuato tutti i componenti del gruppo.
Nel corso dell’inchiesta la polizia ha accertato che il gruppo operava nella zona quasi esclusivamente per il gusto di predominare sugli altri, per segnare il territorio e rapinare “paghette settimanali”, oggetti di valore e capi di abbigliamento firmati, che non esitava a esibire sui social come trofei per l’impresa compiuta».
E le giovani vittime, oggetto di continue vessazioni, per paura di incontrare nuovamente i componenti della gang, hanno in questi mesi limitato le loro uscite o cambiato le loro abitudini, fino ad arrivare «al punto di non indossare un capo di abbigliamento costoso, avendo il terrore di essere rapinati».
Violenza e un modus operandi sempre uguale
«La modalità d’azione di quella che può essere considerata una vera e propria “gang” si manifestava con la commissione di attività delittuose caratterizzate da metodi violenti, reiterati nel tempo e con un modus operandi univoco e costante, condiviso da tutti gli appartenenti al gruppo – spiega la Polizia di Stato nella nota che racconta l’evoluzione delle indagini – L’azione di due o più componenti della gang era condivisa con gli altri sui social per affermare il messaggio che nessuno poteva invadere il loro territorio ed anche per spaventare le stesse vittime, spesso conoscenti o addirittura amici sui profili Facebook, che potevano così verificare direttamente la esternazione del potere e della prepotenza della gang». Le vittime, «conoscendo la “notorietà criminale” dei componenti della gang, non reagivano o, incontrandoli, “speravano” di non essere coinvolte nelle loro azioni criminose, memori delle loro gesta criminali, ormai di dominio pubblico nella zona. Quando incontravano nei quartieri vittime a loro sconosciute chiedevano, prima di colpire, la loro zona di provenienza, ed accertata la loro “estraneità” al territorio, li rapinavano, come se dovessero pagare “dazio” per essere entrati nel loro “spazio”».
La fama prima di tutto, come in Gomorra
I piccoli criminali rapinavano i loro coetanei di cinque, 40 o 90 euro, al massimo non per sopravvivere o sostentarsi, ma soltanto per il gusto di rapinare «come atto di dimostrazione di forza o per “spaventare” le vittime, come fine ultimo proprio quello di crearsi una “fama” e/o una reputazione nel quartiere, come duri e violenti».
Anche se spesso si giustificavano con le loro vittime che il denaro rapinato serviva per acquistare droga o per «fare benzina», appare evidente, secondo gli investigatori che l’esiguità delle somme rappresentava una conseguenza e non la causa del reato. I “trofei” rapinati erano i simboli di uno status sociale agiato: sono stati trafugati capi di abbigliamento e accessori di marca, tenuti e scambiati tra i componenti della gang ed esibiti nei social per rimarcare la loro prepotenza e onnipotenza, come nelle migliori fiction televisive.
Molti profili Facebook sono caratterizzati da frasi o video in cui prevale la violenza o l’appartenenza ad un gruppo come modo di vita, alla pari delle serie televisive come “Gomorra”, dove il valore principe è il gruppo e i “fratelli” da tutelare e, se necessario, vendicare.
Gli investigatori, al lavoro da mesi sul fenomeno, coordinati dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale Ordinario di Roma e dalla Procura per i Minorenni, hanno identificato e monitorato i soggetti, studiando le loro abitudini e i luoghi frequentati, raccogliendo elementi utili alla loro incriminazione, attribuendo specifiche responsabilità nei singoli episodi.