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La app Immuni tra privacy e Costituzione: intervista a Ciacci, super esperto della Luiss

di Daniele Galli

Chi meglio di un docente di Informatica giuridica della Luiss, che vive e ama Roma e il Trieste-Salario (“parchi e palazzi, del mio quartiere mi piace tutto”), può spiegare ai romani che cosa sia Immuni, la app che ti dice se hai avuto a che fare con una persona affetta da Covid-19? Classe 1964, il professor Gianluigi Ciacci vanta all’attivo un diploma di maturità classica al San Leone Magno, una laurea in Giurisprudenza alla Luiss, uno studio legale specializzato sulle nuove tecnologie e due figli che studiano alla Maria Ausiliatrice in via Dalmazia e all’Avogadro di via Brenta.

Gianluigi Ciacci
Gianluigi Ciacci

Professor Ciacci, negli ultimi tempi si sente parlare solo di contact tracing. Che cos’è?
“È un sistema di tracciamento dei contatti che può essere applicato con diverse modalità e in differenti ambiti. Per quello che riguarda la realtà sanitaria, viene definito come il processo di identificazione delle persone che potrebbero essere venute a contatto con un soggetto infetto e la successiva raccolta di ulteriori informazioni su tali contatti. Nello specifico, l’infezione è quella da Covid-19”.

Come funziona esattamente Immuni?
“Da quello che al momento viene divulgato in maniera abbastanza contraddittoria e poco chiara, tenendo presente che l’app ancora non è esaminabile, è praticamente impossibile stabilirne il funzionamento in maniera esatta. Finora, comunque, abbiamo letto che lavorerà attraverso il bluetooth del cellulare in cui è stata installata”.

Deve esserci una distanza minima tra i due bluetooth?
“Sì. Un metro. I due smartphone devono anche restare in contatto per almeno quindici minuti”.

E poi?
“I due smartphone si scambiano un codice che viene conservato in ciascuno di essi: sul cellulare di A si memorizza il codice di B, e viceversa; nel corso di una giornata, presumibilmente, i nostri cellulari acquisiranno diversi codici, e così via via nei giorni successivi. Quando un soggetto risulta positivo al virus, il “tracciamento” avvenuto nel periodo precedente permetterà di avvertire tutti coloro che sono entrati in contatto con il codice del malato di Covid-19”.

Quali opzioni avrà una persona che scoprirà di essere stata a contatto con un soggetto positivo al virus?
“Dopo la ricezione sul proprio smartphone dell’allarme, si procederà ad avviare un periodo di quarantena, oppure ad intervenire con il controllo attraverso il tampone. Siamo però nel campo delle ipotesi. Esistono più ricostruzioni. Dovremo aspettare l’attivazione di Immuni per poter conoscere con esattezza i dettagli”.

L’alert scatterà dopo quindici minuti a contatto con un soggetto a rischio. Ma se questi starnutisse in nostra presenza, il contagio non sarebbe immediato?
“Bella domanda. Da quello che è stato detto dai virologi sulla contagiosità del Covid-19, sembrerebbe di sì. Ma ci si potrebbe chiedere, al contrario: nel caso in cui entrambi indossassimo mascherina e guanti e nessuno starnutisse, ma restassimo a contatto per venti minuti, scatterebbe lo stesso l’alert? Come vede, appare confuso anche il parametro per la segnalazione”.

Esistono dei profili di rischio per il diritto alla privacy?
“Sì. Sia per la propria riservatezza, sia più in generale per la protezione dei numerosissimi dati che risulteranno dal sistema che si sta provando a costruire. È stato assicurato che Immuni rispetterà sicuramente i requisiti richiesti dal Regolamento generale sulla protezione dei dati. Ma anche in questo caso occorrerà una verifica. Dovremo attendere il rilascio della app”.

Perché parla di “sistema”?
“Perché il rispetto della legge sulla protezione dei dati dovrà riguardare non solo la app, ma anche tutti i soggetti coinvolti nel suo sviluppo e nella sua gestione: la società che la produce, i suoi fornitori tecnici, il ministero della Salute, e forse anche coloro che la scaricheranno”.

Come facciamo a fidarci?
“Volendo vedere il bicchiere mezzo pieno, possiamo ritenere che la presenza dell’Autorità garante per la protezione dei dati personali, e una certa diffusione della “cultura” della privacy nella nostra società – esponenzialmente aumentata negli ultimi due anni – permetteranno di ridurre di molto il rischio di eventuali violazioni”.

Sarebbe possibile limitare la circolazione di chi non scarica Immuni?
“No. Lederebbe non solo la normativa specifica in materia, ma anche i nostri diritti inviolabili, sanciti nella Costituzione. Non mi sembra una soluzione percorribile. Certo, la tutela della salute pubblica permette in situazioni di grande emergenza, come quella che stiamo vivendo da due mesi, limitazioni a tali diritti, ma in questo caso esse sarebbero eccessive”.

L’attivazione del bluetooth potrebbe in qualche modo consentire a qualche cyber-criminale di intrufolarsi nel nostro smartphone?
“A livello tecnico non si può escludere questa possibilità, ma non è certamente così alla portata di tutti. Anzi, direi che lo è di molti pochi. Comunque, in realtà, già oggi diversi sono i dispositivi che funzionano in questo modo. Il mio smartwatch e le mie cuffie wireless si collegano con il mio cellulare attraverso il bluetooth, e non ho mai riscontrato problemi”.

Affinché Immuni sia efficace, in quanti dovrebbero scaricarla?
“Da quello che dicono, almeno il 65% della popolazione italiana. Parliamo di circa trenta milioni di cittadini. Queste cifre lasciano abbastanza perplessi circa le possibilità che il progetto abbia successo. Mi chiedo anche se l’intero apparato – il sistema tecnologico, ma anche sanitario e organizzativo – “reggerà” ai numeri che verranno generati. Parlo di connessioni, di trasmissioni, di comunicazioni e di tamponi che dovranno essere eseguiti sulle persone a rischio contagio”.

App del genere sono state mai impiegate in precedenza?
“Come queste che si stanno utilizzando in diversi Paesi, e in ambito sanitario, non mi risulta”.

Secondo un esperto di innovazione come Riccardo Luna, in assenza di una app che tracci i contatti, qualunque vero alleggerimento delle misure di isolamento sociale equivale alla certezza di nuovi focolai. Lei è d’accordo?
“Penso che non basterà un solo strumento per combattere la pandemia. Saranno necessarie diverse soluzioni. Secondo me, non sarà solo l’eventuale fallimento della app a determinare una seconda ondata di contagi. Sarebbe un errore concentrarsi esclusivamente su Immuni, piuttosto bisogna tenere in debita considerazione tutto il contesto. A cominciare dai nostri comportamenti personali: dalle misure igieniche a quelle sul distanziamento sociale”.

Professore, cosa significa insegnare ai tempi del Coronavirus? Come è cambiata la sua professione?
“Insegnare nella situazione che stiamo vivendo significa mettersi in gioco. Ferme restando le difficoltà e la pesante assenza del contatto con gli studenti, infatti, ritengo che l’approccio corretto sia quello di considerarla un’occasione per migliorare”.

Per migliorare cosa?
“Abbiamo la possibilità di sfruttare la necessità dell’impiego delle tecnologie in questo periodo per uscire (finalmente) dal nostro “medioevo digitale”. E di scoprire nuovi strumenti per rendere più affascinanti le nostre lezioni. Strumenti che daranno nuove gratificazioni ai docenti, grazie ai risultati che otterranno. Ma soprattutto, questa situazione consentirà di avviare una nuova comunicazione con i nostri studenti”.

E come?
“Abbiamo iniziato a parlare il loro linguaggio, fatto di social network e di giochi in mondi virtuali, come Fortnite (un videogioco social, ndr). Se noi docenti saremo in grado di metterci in gioco, se coglieremo l’opportunità che si sta presentando, migliorerà la formazione dei nostri studenti”.


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