Trieste-Salario | Articoli

Per la tavola delle feste, i sapori delle tradizioni regionali

di Ilaria Koeppen

Minestra in brodo d’arzilla, baccalà, abbacchio e pangiallo. Cosa li accomuna? La tavola delle feste. Quella romana naturalmente, verace e rigorosamente abbondante, per la cena di magro della vigilia e per il pranzo del 25, in cui la fanno da padrone anche pasta e broccoli, spaghetti con le alici, ceci, capitone e carciofi fritti.
Ma la vocazione gastronomica del Trieste-Salario, anche a Natale, non è solo quella romanesca. Fin dalla sua nascita, il quartiere ha subìto una contaminazione di cucine regionali: dalla toscana alla sarda, dalla siciliana all’abruzzese. Un mix di tradizioni che vogliamo scoprire attraverso i racconti di chi, nel Trieste-Salario, da anni riporta in tavola, proprio a Natale, i sapori e le ricette della propria terra.

Tra Roma e Abruzzo, baccalà e abbacchio
Roma e Abruzzo: due tradizioni strettamente legate. Almeno per Andrea Dell’Omo del ristorante Mamma Angelina. Ha un cuore romano, ma le origini sono abruzzesi. Tra i suoi ricordi delle feste, quello dei cannelloni e dell’abbacchio. «Quando c’era mamma in cucina, passavamo sempre il Natale qui al ristorante – racconta Andrea –. Faceva dei cannelloni di carne “da sentirsi male”. Finito il servizio, il nostro pranzo di Natale era quello: non si prescindeva dai cannelloni. Il personale quasi ci implorava di metterne da parte una porzione per ognuno di loro».

L’abbacchio invece è un “must” delle feste, una tradizione tipicamente romana che il 25 dicembre non manca mai in carta: tuttora viene condito personalmente da mamma Angelina, attualmente in pensione. «È un rituale che il giorno di Natale spetta solo a lei – continua Andrea –. Ancora oggi, a 84 anni, arriva al ristorante la mattina alle 9 e si mette lì, con il suo aglio e con il suo rosmarino, pepe e sale e massaggia questi agnelli. Li condisce con amore».
Un fronte, quello dell’abbacchio, su cui si apre anche lo “scontro” fra tradizioni abruzzesi e romane: «Per lei, abruzzese, l’agnello va macellato almeno a dieci chili. A Roma siamo abituati a lavorare agnelli di sei-sette chili. Mia madre dice che siamo pazzi perché non c’è abbastanza carne».
Il ristorante, per le feste, propone vari piatti: dai ravioli fatti in casa con brasato di carne di manzo, conditi con castelmagno e carciofi, al bollito misto. Tra i piatti più gettonati (e sempre in carta), di cui vi proponiamo la ricetta, c’è il baccalà con ceci e porri croccanti.
«È una ricetta ebraico-romana, leggermente rivisitata. Noi adoperiamo il cuore di baccalà islandese, che notoriamente è al massimo delle sue qualità organolettiche. Lo facciamo in forno, al cartoccio. Con questo sistema evitiamo che il baccalà diventi troppo stoppaccioso. In questo modo riduciamo al minimo la disidratazione durante la cottura».

La tradizione sarda tra mare e terra
«I miei ricordi d’infanzia sul Natale – spiega Bruno Carcangiu, del ristorante Garigliano – sono legati alla cucina di casa. Il 25 dicembre si facevano i culurgiones. Sono dei ravioli fatti con patate, provola o formaggio fresco, che si chiudono a spiga e si servono o con il burro o con il pomodoro fresco e basilico. Molto buoni».

Tra i piatti sardi tipici natalizi, anche la cordola (budelline di agnello intrecciate e fatte al forno) con i piselli e i carciofi da accompagnare all’agnello oppure da fare crudi. «Da tradizione – dice Bruno – nel nostro ristorante li serviamo a insalata, con la bottarga, ingrediente tipico del 24 dicembre, o con il pecorino».
Immancabili le seadas, tortelli fritti ripieni di formaggio, conditi con miele e zucchero, e su gattou, che secondo Andrea, attuale titolare e figlio di Bruno, è “il vero dolce sardo”. E poi il piatto principe della Sardegna: la fregola con le arselle. «Noi lo proponiamo quasi sempre» racconta Bruno. «Basta far aprire le arselle in una padella con olio, aglio e peperoncino. Poi si mette a cuocere la fregola in acqua bollente per 10-12 minuti, come per la pasta. La si scola al dente, lasciando un po’ d’acqua di cottura e la si unisce alle arselle e si salta tutto nella padella. Volendo si può anche mettere qualche pomodorino pachino».
Un piatto, la fregola, che si presta a tante varianti. Al ristorante Capo Boi, ad esempio, viene preparata con i gamberi e lo zafferano di San Gavino Monreale oppure con i frutti di mare. «Anziché fare il risotto allo scoglio con i frutti di mare – spiega il direttore Nicola Garau – lo facciamo con la fregola perché secondo noi è più particolare. Basta fare un soffritto, mettere i crostacei e la fregola in padella e si cuoce tutto con un pizzico di brodo di pesce. Bastano cose naturali, cuciniamo in maniera semplice».

Toscana, il 25 dicembre con fegatini e ribollita

«In Toscana alla Vigilia non si mangiava quasi nulla – racconta Mauro Del Grande, titolare de La Mora, il ristorante toscano in piazza Crati – al massimo un po’ di brodo. Il pranzo di Natale era quello importante. Il 25 nonna preparava i crostini toscani, fatti con il pane e la salsa dei fegatini. Guai se mancavano. Da bimbetto andavo a rubarli mentre li faceva. Poi preparava le fettuccine al ragù di manzo, quello che cuoceva mezza giornata. Era bello pesantuccio, però strepitoso. Le fettuccine erano fatte in casa. Nonna le metteva a stendere sui manici di scopa. E poi – prosegue Mauro – la zuppa di pane, che qua chiamiamo ribollita o pancotto. Ancora oggi la ribollita che propongo nel mio ristorante è la zuppa di pane che faceva mia nonna a Natale: quella dove il cavolo nero rappresenta il cinquanta per cento della zuppa, poi aggiungo tutte le altre verdure».
Un piatto povero, la ribollita, nato per riutilizzare il pane sciapo (“sciocco” in Toscana) perché quello fresco si faceva solo la domenica, perfetto per le feste. «Natale è il periodo ideale per la ribollita – spiega Mauro – perché è il momento in cui il cavolo nero, che va da novembre fino a marzo, è in assoluto al suo apice».
Tra le preparazioni tipiche, anche la farinata, fatta con cavolo nero, polenta e rigatino (pancetta stesa), e i carciofi fritti. Discorso a parte è per il cacciucco, piatto livornese, che oggi in molti usano per le feste, ma che non sarebbe prettamente natalizio.

Sicilia, vigilia dai nonni con crudi di pesce e pasta del pescatore

«I siciliani amano dare molta importanza alla famiglia e al cibo – racconta Francesco Campisi del ristorante Campisi in viale Somalia – in particolar modo durante le feste natalizie». La Vigilia in genere si passa dai nonni e prevede rigorosamente pesce. «Tra gli antipasti crudi – dice Campisi – non possono mancare i gamberi rossi di Mazara del Vallo e i carpacci di ricciola. E poi orate selvagge di Porto Palo di Capo Passero, polpo di scoglio, calamari e totani che vengono proposti anche nel nostro ristorante».
Tra le preparazioni che non possono mancare, il trancio di ricciola in crosta di pistacchio e la pasta alla Matalotta. Un piatto, quest’ultimo, legato alla storia di un vecchio pescatore siciliano: «Quando andava a recuperare le reti – racconta Campisi – spesso trovava del pesce aggredito dalle pulci di mare. Non potendolo vendere intero toglieva le parti aggredite. Poi lo regalava ai poveri oppure lo vendeva a un prezzo bassissimo, spiegando alla gente come usarlo in cucina. Nacque così il termine Matalotta. Noi in genere questo piatto lo serviamo ai clienti con il tonno, che è una delle tante varianti ma si può utilizzare qualsiasi tipologia di pesce».

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