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Quei nove colpi che uccisero l’avvocato Massimo D’Antona

di Sara Fabrizi

“In questo luogo nei pressi della sua dimora il professor Massimo D’Antona, insigne studioso di diritto del lavoro, venne assassinato da mano terrorista”. Una grande targa su via Salaria, all’angolo con via Adda, ricorda, a chiunque abbia il tempo di alzare lo sguardo, la data del 20 maggio 1999.

È una mattina di primavera, calda. Poco dopo le otto, Massimo D’Antona esce da casa sua, al quarto piano di un palazzo di via Salaria, angolo via Po, per andare al suo studio come ogni giorno. È avvocato e professore, ma soprattutto lavora come consulente del Ministero del Lavoro. In particolare sta affiancando il ministro Antonio Bassolino nel delicato compito di riformare il mercato del lavoro ed è lui ad aver promosso il Patto per l’Occupazione e lo Sviluppo. D’Antona procede a piedi, solo. Poco dopo l’incrocio con via Adda c’è un cartellone pubblicitario che impedisce parzialmente la visuale sulla strada. Dalla casa di D’Antona a questo punto sono in tutto centotrenta passi. È qui che, come racconta un testimone oculare, il professore viene avvicinato da due persone, un uomo e una donna. Sembra tutto perfettamente normale, finché non si sente il rimbombo sordo di nove colpi di pistola. Quando parte il primo proiettile D’Antona cerca istintivamente di proteggersi con quello che ha in mano, una delle borse in cui conserva i suoi documenti. A impugnare la pistola è il brigatista Mario Galesi, mentre la donna, il cui identikit viene fornito da una passante (“i capelli corti e lisci, castano scuri, attaccati al volto e pettinati con la riga in mezzo, occhi grandi, piuttosto scuri e faccia grassottella”) è Nadia Desdemona Lioce.

L’agguato è rapidissimo, ma ha dietro un piano preparato con cura maniacale. L’operazione è scattata quattro giorni prima con la fase preliminare di disposizione dei mezzi necessari: due furgoni, in sosta sulla Salaria, due scooter e diverse biciclette per le staffette. Dentro il furgone Nissan, Galesi e Lioce si sono appostati fin dalle 5.30 del mattino, in attesa dell’arrivo della loro vittima designata. Hanno spiato la strada attraverso un piccolo foro ricavato nella vernice bianca che copre tutti i vetri. D’Antona, colpito alle 8.25 del mattino, viene portato d’urgenza al Policlinico Umberto I, dove muore un’ora dopo.

La rivendicazione dell’azione è un documento di quattordici pagine stampate fronte-retro, con un simbolo che non lascia dubbi sulla provenienza: in cima al primo foglio c’è la stella a cinque punte circondata da un segno e la sigla BR-PCC (Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente). In poche parole, le Nuove Brigate Rosse. Viene ritrovato nei cestini di via Crispi e di via Fontanella Borghese, segnalato da un messaggio pre-registrato ai telefoni del “Messaggero” e del “Corriere della Sera”. Sotto quello stesso segno e per quelle stesse motivazioni, verrà assassinato tre anni dopo, a Bologna, Marco Biagi.

 

L’attentato brigatista di 19 anni fa nel libro di Typimedia sulla storia del Trieste-Salario
L’agguato delle Br di 19 anni fa, che portò alla morte di Massimo D’Antona, è uno dei fatti più gravi della storia recente del Paese ed è anche una delle pagine più dolorose della stagione di sangue dovuta agli attentati che ebbero Roma come teatro. Il grave episodio, uno degli ultimi sussulti del terrorismo rosso, viene ricostruito anche dal libro “La Storia del Trieste-Salario, dalla preistoria ai giorni nostri” edito da Typimedia, che ricorda come l’attentato avvenne in un periodo in cui lo spettro dell’eversione armata si riteneva ormai superato. L’uccisione di D’Antona, e successivamente quella di Marco Biagi a Bologna, segnarono invece un nuovo doloroso capitolo per la democrazia del Paese.

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